Non si spegne, e a ragione, l’interesse mediatico internazionale per il Termopolio riaffiorato intatto a Pompei in una delle nove regiones cittadine, per l’esattezza la quinta. Il Ministero per i beni e le attività culturali ne ha dato trionfalmente notizia il 26 dicembre. Quasi a dimenticare forse e, più probabilmente, a far dimenticare per un attimo le polemiche sulle restrizioni anti-Covid nel periodo natalizio.
Ubicato nello slargo all’incrocio tra il vicolo delle Nozze d’argento e il vicolo dei Balconi, l’antesignano degli attuali street food bar è riaffiorato all’interno dell’area commerciale indagata solo parzialmente nel 2019. Erano stati allora scoperti lo splendido affresco dei gladiatori in combattimento e una cisterna, una fontana e una torre piezometrica per la distribuzione dell’acqua nella piazzetta antistante il Termopolio. Da qui la decisione di portare a termine lo scavo dell’intero ambiente in modo da proteggerlo con adeguato restauro e lo straordinario rinvenimento.
In perfetto stato di conservazione il bancone di vendita di bevande e cibi caldi per il consumo in strada, resti dei cui ingredienti sono stati ritrovati nei dogli o giare di terracotta incassati nel ripiano superiore: suini, caprovini, pesce, lumache di terra fino alle fave macinate, che servivano – lo ricorda Apicio nel De re coquinaria – a sbiancare il vino.
Ma a colpire immediatamente la superba decorazione del bancone con immagini dai colori talmente accesi da sembrare tridimensionali. Sul fronte una Nereide a cavallo in ambiente marino, sul lato corto l’illustrazione probabilmente della stessa bottega a mo’ d’insegna commerciale, sul lato lungo, infine, due anatre germane a testa in giù pronte per essere preparate e consumate – un frammento osseo di questo volatile è stato ritrovato in uno dei dogli -, un gallo e un cane al guinzaglio secondo il fortunato modello iconografico del Cave Canem.
Ed è proprio al di sopra di quest’ultima immagine che si legge l’iscrizione graffita «Nicia cinaede cacator» a probabile sbeffeggiamento del proprietario, che doveva forse essere un liberto d’origine greca. Grazie a questa scoperta viene così ad arricchirsi il corpus di graffiti parietali, con cui a Pompei si mettevano alla berlina maschi effeminati, dediti o no alla prostituzione, per lo più penetrati analmente. Come appunto il cinedo, anche se per colui che oggi verrebbe indicato omosessuale passivo il termine più appropriato era quello di pathicus.
L’esibizione della propria virilità nei riguardi di chi ne era considerato privo e la volontà di tramandare il ricordo di gesta di sottomissione sessuale è per lo più attestata nei 22 graffiti, esplicitamente riferentesi ai rapporti tra maschio attivo e maschio passivo, attraverso il verbo pedicare e le sue varie forme o derivati. Quello che, in un linguaggio perbenista, si renderebbe con sodomizzare o penetrare analmente. Ma che, nel pieno rispetto di un’art de rue espressiva di mentalità e stilemi del pompeiano medio, va tradotto con inculare.
Se così non fosse, perderebbero di smalto e genuino significato anche le versioni italiane dei Priapea, dei carmi di Catullo, degli epigrammi di Marziale, giusto per menzionare le più note opere poetiche in cui si fa maggiore impiego di lemmi come pedicare, futuere e irrumare.
Il futuere dall’ovvio significato, che è anche una delle parole chiave delle 143 iscrizioni graffite pompeiane a carattere amoroso e sessuale sugli oltre 5.000 complessivi finora scoperti e analizzati, si riferiva alla penetrazione vaginale della donna – il cui ruolo è indicato con crisare – da parte dell’uomo.
Al riguardo i graffiti della città campana ne attestano comunque un uso più ampio, forse talora riferibile a rapporti sessuali tra uomini. Basterà citare, a titolo di esempio, il «Quintio hic futuit ceventes et vidit qui doluit», che nella traduzione di Luca Canali e Guglielmo Cavallo per la Bur del 1991, è reso con «Quinzio qui fotté culi frementi e vide a chi gli doleva».
Ora, se è vero che cevere indicava indistintamente l’ancheggiare della donna e dell’uomo e, quindi, il dimenarsi nel rapporto anale, non si può non ricordare come in Persio, Marziale e Giovenale significhi propriamente lo sculettare degli effeminati e il ruolo passivo degli stessi nei confronti del pedicator.
Il rapporto orale come quello anale aveva un ovvio carattere ambigenere, essendo agito nei riguardi di donne e uomini da uomini dominatori e, come tali, unici a sentirsi ed essere riconosciuti pienamente maschi.
Ma se irrumare era una gloria per quest’ultimi, il succhiare l’organi genitale maschile era ritenuto l’atto più infamante per l’uomo che lo faceva, soprattutto se a ciò costretto, come ricorda il Priapeo XXXV.
In ogni caso la fellatio femminile e maschile è quella maggiormente attestata nelle iscrizioni graffite pompeiane: ben 72 sulle citate 143, ossia – e ben lo rammenta Robert Etienne nel suo studio La rue messagère d’amour à Pompéi – «il 50% e i disegni dei falli sono lì per chiarire il senso dell’affermazione o dell’invettiva».
Invettiva, dileggio, beffa che, al di là di ogni considerazione, sono anche rivelative delle pratiche in uso a Pompei e di una vita sessuale intensa nella città «sede di Venere – così Marziale nell’Epigramma XLIV del Libro IV – a lei più cara di Sparta» (Veneris sedes, Lacedaemone gratior illi).
In quest’ottica si comprende perciò ancor meglio significato e valore del graffito del Termopolio della Regio V, che nel tramandare a noi il ricordo beffardo di Nicia cinedo cacone offre un’ulteriore testimonianza di uno dei flagelli della quotidianità pompeiana: l’abitudine, cioè, di defecare in strada e lasciare là le proprie deiezioni con tanto di vera e propria categoria da additare al pubblico ludibrio, quella appunto dei cacatores.