Sharia don’t like itQuelli che sperano che i talebani 2.0 siano meno talebani dei talebani

La retorica è rassicurante: ci sarà l’amnistia, verranno rispettati i diritti, le donne potranno continuare a studiare. Ma è propaganda per l’opinione pubblica straniera. Farsi illusioni è sbagliato: alla radice sono sempre uguali, i leader sono gli stessi e l’ideologia non è cambiata

LaPresse

La guerra è finita. I talebani hanno già annunciato l’amnistia generale e hanno dichiarato ai cittadini afghani, i quali hanno assistito con sgomento alla rapida presa del potere degli estremisti islamici, che potranno riprendere «la loro routine quotidiana», con tranquillità e fiducia. I toni sono rassicuranti da giorni, anzi: da mesi. Lunedì 16 il portavoce Suhail Shaheen ha dichiarato che «la vita, le proprietà e l’onore di tutti non saranno colpiti, ma anzi protette dai combattenti islamici».

Proprio mentre viene disegnato il nuovo governo con cui intendono guidare il cosiddetto Emirato islamico dell’Afghanistan, il regime che era stato abbattuto 20 anni fa dagli americani in risposta agli attacchi dell’11 settembre e che adesso è stato ripristinato, le promesse sono sempre più conciliatorie e pacifiche. Non intratterranno più legami con gruppi terroristici, dicono. Rispetteranno i diritti delle donne, promettono. Anzi: le lasceranno studiare e lavorare e, addirittura, assicureranno che possano partecipare alla vita politica del Paese.

Sono i talebani 2.0 (definizione del Financial Times), cioè la nuova immagine creata a tavolino a scopi di propaganda, dove al posto delle punizioni corporali, le esecuzioni pubbliche, la violenza indiscriminata, la reclusione della donna e la rigidità dottrinale si presenta un combattente devoto ma rispettoso dei diritti e del processo democratico. Se qualcuno fosse tentato di crederci, a fargli cambiare idea basterebbe la sincera risata che sfugge al combattente intervistato qui

(da “Vice, season 2”, su Showtime)

Ma ci sono anche altri argomenti. Il Financial Times ricorda che, nonostante il ricambio generazionale, al vertice ci sono sempre gli stessi. Il capo supremo Mawlawi Hibatullah Akundzada, per esempio, era il consigliere religioso del mullah Omar, tra i fondatori del movimento. Mentre il capo politico (e forse prossimo presidente) è Abdul Ghani Baradar, un altro dei fondatori.

Non è da escludere, come ricorda l’Economist, che non si aggiungano presto anche altri leader, che per ora rimangono nascosti – pare – in Pakistan. Uno potrebbe essere Sirajuddin Haqqani, leader del network Haqqani, considerato uno dei gruppi più pericolosi dalla Nato. Un altro invece sarebbe il mullah Yaqoob, figlio del mullah Omar. Entrambi sono figure di grande rilievo dal basso profilo pubblico e potrebbero assumere ruoli importanti. Nessuno dei due ha l’aspetto del riformista.

Del resto, dopo due decenni, l’ideologia politica non è cambiata di un centimetro. Come ricorda al quotidiano finanziario inglese Husain Haqqani, studioso dell’Hudson Institute (e solo omonimo di Sirajuddin), i talebani governeranno «proprio come prima, forse con qualche modifica». Del resto l’obiettivo è quello di «instaurare un governo fondato sulla sharia e implementare l’Islam, non certo quello di sviluppare un Paese moderno». Niente elezioni, sia chiaro. E sui diritti basti pensare che a Ghazni e Herat hanno già cominciato a impedire alle donne di andare al lavoro o a scuola. «I talebani sono diventati esperti nella gestione dei media», ricorda Sajjan Gohel, esperta di Asia del Sud per la London School of Economics. «Per cui non è da escludere che all’inizio il governo sia davvero inclusivo», ma come facciata e soltanto per un periodo limitato, per arrivare «all’impostazione teocratica fondamentalista».

Di fronte a questo, la posizione degli altri Paesi si rivelerà importante. Al momento nessuno ha riconosciuto il nuovo regime talebano, anche se sono arrivati attestati di stima e incoraggiamento da parte del Pakistan. La Cina stessa si è già detta pronta per relazioni «amichevoli e cooperative». Il mondo occidentale, ancora segnato dalla disfatta, non sa come muoversi. Da un lato è palese il rifiuto di aiutare, anche a livello economico, il regime talebano. Dall’altro c’è chi spera di utilizzare la leva finanziaria per condizionare alcuni aspetti della politica.

In questo senso il primo ministro inglese Boris Johnson ha invocato una posizione unitaria tra tutti i Paesi «che la pensano al nostro stesso modo», per intervenire in vario modo ed evitare che l’Afghanistan torni a essere un «brodo di coltura del terrorismo». In più, se i talebani si dimostrano aperti e accetteranno alcune «condizioni», che riguardano il terrorismo, i diritti umani «e molte altre cose», potrebbe arrivare anche il riconoscimento internazionale.

Una posizione ingenua? Si spera che sia solo un modo, cauto, per andare a vedere le carte dei nuovi talebani 2.0. E smascherarne il bluff.

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