Uno sdraiato a KabulElogio di Tommaso Claudi e di una generazione che non abbiamo capito

Così il ragazzino sprofondato nel divano e nel telefono del libro di Michele Serra è diventato adulto andando a dare una mano nel disastro che ha dirottato il tempo della sua giovinezza. Un tempo poco compreso

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Tommaso Claudi sappiamo tutti chi è, dopo che ha girato molto una foto in cui lui prende in braccio un bambino afghano ad Abby Gate, l’ingresso dell’aeroporto di Kabul, quello dove c’è stato l’attentato, e lo tira su dalla calca che si ammassa, di fatto, in una fogna a cielo aperto.

Claudi è stato molto elogiato, intervistato, preso a esempio per dire: ecco i nostri ragazzi, ecco la nostra diplomazia, ecco la nostra Italia. Luigi Di Maio gli ha detto: «Hai onorato il Paese».

Claudi è figlio di Giovanna Zucconi, che su Twitter in questi giorni ha scritto di essere orgogliosa di lui – ha fatto cioè quello che le mamme di tutto il mondo fanno, peraltro in modo assai più invasivo e invadente, nelle orecchie di passanti, amici, parenti dell’ottavo grado, affini, congiunti, disgiunti, ex, post, pre, pro, ovunque li incontrino, che sia in fila al supermercato o mentre si fa una manovra complicata di ratfing alle Marmore, rischiando la pelle in quel modo radical chic in cui si rischia la pelle in vacanza da quando andare in albergo non è più un lusso. Le mamme di tutto il mondo le sopportiamo, e di solito elogiano figli che si diplomano in acquerello.

A Giovanna Zucconi, invece, la fierezza d’essere madre di Tommaso Claudi, uno del quale siamo stati fieri tutti, non è stata propriamente perdonata.

Fulvio Abbate ha tentato di aizzare una polemica contro la sinistra italiana (ebbene sì) e ha scritto su Facebook, dove ha ripostato i tweet di Zucconi: «Il ragazzo, trentunenne, ha insomma tutte le carte in regola per assurgere a simbolo di un dato contesto socio-culturale ben immaginabile». Ne è seguita la prevedibile micro wave di indignati, incancreniti accusatori generici che in pochi minuti hanno cambiato idea su Claudi: da virtuoso ragazzo perbene, eroe contemporaneo, esempio per i loro figli, lo hanno additato come il solito rampollo della sinistra riflessiva che è andato a farsi una vacanza estrema a Kabul grazie ai contatti di mamma e papà. Mica come i ragazzi che puliscono i treni su cui viaggia Fulvio Abbate mentre riflette sulle nequizie del mondo e denuda il re.

Giovanna Zucconi ha chiuso il profilo Twitter. E buon per lei.

Lo riporto non perché sia degno di nota (se posso permettermi, temo che sia indegno di tutto, talmente indegno da non essere neppure ridicolo, come è, invece, l’altra polemica pauperista dell’estate, quella su Monica Cirinnà, i 24mila euro trovati nella cuccia del cane e la sua colf). Lo riporto perché Giovanna Zucconi è la moglie di Michele Serra, il quale, nel 2013, pubblicò “Gli sdraiati”, un romanzo sulla paternità e su come un “tipico relativista etico”, di sinistra, intellettuale, insomma su come lui, Serra, cercava di costruire una relazione con un figlio adolescente che svicolava completamente dall’autorità e da qualsiasi dinamica di potere. Era un libro che offriva uno sguardo su una generazione in fieri, quella dei millennial: la stroncava, l’ammirava, non la capiva, se ne stupiva e, prima di ogni cosa, la riconosceva. La metteva in discussione.

Il libro è dedicato a quattro persone, tra cui compare anche un Tommaso. Che sia Claudi non è importante, perché Claudi, come qualunque suo coetaneo, è stato in quel libro, ha assomigliato, con dosaggi naturalmente diversi, allo sdraiato protagonista, quello di cui Serra descriveva la sordità alle sollecitazioni adulte, anche le più divertenti, progressiste, liberali, poetiche; la pigrizia; il “perfezionismo della negligenza”; l’incuria; l’indifferenza alle regole della convivenza civile; l’“attiva renitenza” che forse era più che altro “soave distrazione”; il disinteresse verso tutto ciò che non fosse rap e dispositivo elettronico, quindi, di fatto, verso tutto il mondo fuori.

Quel libro, che fu capito piuttosto male, arrivò quando ancora sui ragazzi pesava l’invito di Elsa Fornero, allora ministro del Lavoro, a non fare troppo gli schizzinosi – choosy – e (sintesi brutale) accontentarsi del primo co co pro che veniva loro proposto, pesava la crisi, pesava la fine del futuro come lo avevamo conosciuto fino a quel momento, ovverosia come una progressione misurata sull’avanzamento dei figli rispetto alla condizione dei padri e, accipicchia, pesava anche l’11 settembre.

In conclusione delle pagine in cui descrive la baraonda domestica in cui vive e sguazza lo sdraiato, Serra scriveva, senza saperlo, la migliore sintesi della condizione esistenziale dei millennial che non erano ancora millennial: «Tutto rimane acceso, niente spento. Tutto aperto, niente chiuso. Tutto iniziato, niente concluso». Non molto tempo dopo arrivò il terrorismo in Europa, la generazione Erasmus fu rinominata Generazione Bataclan. Ascoltavamo l’indie rock che però non era rock ma pop, e andava in classifica, e ci sembrava la sola cosa buona e duratura che era riuscita ai venti-trentenni, dopo che il ricambio generazionale renziano era fallito: avevamo cambiato la musica, avevamo aperto un varco nuovo nel cantautorato italiano.

Cantavamo “Frosinone” di Calcutta, che uscì un mese dopo la strage del Bataclan. «A quest’America daremo un figlio che morirà in Jihad». Durò meno, assai meno del previsto. Arrivarono i rapper, la genZ molto arrembante, incazzata, nuova, fresca, precoce, e ci mandò in soffitta prima del tempo. I millennial hanno iniziato tardi e finito presto: sono scomparsi troppo presto, due lettere nell’universo. Così abbiamo detto. Sempre. Lo abbiamo detto tra millennial e lo hanno detto tra non millennial: tutti concordi nel sancire l’irrilevanza di una generazione sfortunata, senza dubbio, ma pure indolente, fragile, incapace di reagire, cacasotto, viziata.

Poi però c’è Tommaso Claudi, che nello strascico della guerra che ha sfiancato la sua generazione, è andato a tirar fuori i bambini, gli uomini, le donne, uno a uno, tirandoli su dalle fogne. Lo sdraiato, cresciuto e pasciuto “da un certo ambiente”, il ragazzino sprofondato nel divano e nel telefono, è diventato adulto andando a dare una mano nel colpo di coda del disastro che ha dirottato il tempo della sua giovinezza. Un tempo che non abbiamo capito, che è fatto di questi ultimi vent’anni che adesso recriminiamo a Joe Biden, agli Stati Uniti, all’imperialismo, e che s’è rivalso sul futuro di tutti, inclusi gli adulti bianchi occidentali, che il loro tributo di sangue lo hanno pagato piuttosto caramente ed è una delle cose che noi, dell’America che si ritira, non riusciamo a capire.

Per noi i millennial sono quelli del precariato, del post riflusso, del post ideologico, quelli che non ho lavato i piatti con lo Svelto e questa è la mia libertà, quelli che hanno cominciato a indossare magliette nostalgiche sui loro miti d’infanzia a 25 anni, lagnandosi della fine delle cose buone come se di anni ne avessero 80: sono i mammoni, i choosy, gli inetti, i noiosi, i sociopatici. Negli Stati Uniti, però, sono anche i ragazzi che sono andati ai funerali dei loro amici morti in Iraq, ritrovandosi intorno a bare vuote. E li ha raccontati un romanzo strepitoso e terribile, uscito l’anno scorso per Einaudi: “Ohio”, di Stephen Markley. È in quel libro che c’è tutta la stanchezza, la nausea degli americani, degli adulti attivi americani, alla quale Biden, sin da quando Obama era presidente, ha capito che era arrivato il momento di dare ascolto.

Degli americani morti nell’attentato di Kabul, il più vecchio aveva trentuno anni.