Nel XV secolo spostarsi per lunghe distanze era pericoloso. La fatica era tanta e i rischi, collegati alla strada, rendevano ogni viaggio un’avventura. Per questo motivo, quando nel 1417 in un convento olandese suor Truyde aveva chiesto a sorella Ghertruut di accompagnarla per un pellegrinaggio a Roma, in modo da arrivare in tempo per la festa di Sant’Agnese a fine gennaio, la seconda aveva mostrato una certa titubanza. Aveva già fatto quel viaggio in precedenza e non era sicura di riuscire a sopportare di nuovo tutte le difficoltà che imponeva. In ogni caso, Truyde partì in tempo, mentre Ghertruut aspettò due settimane e non riuscì a fare in tempo per la celebrazione.
La cosa più interessante di questa storia, fa notare l’Economist, è che nessuna delle due monache uscì dal convento.
Quello che avevano in mente, e di cui avevano discusso fino a quel momento, era una sorta di viaggio virtuale: il loro corpo rimaneva confinato nelle (sicure) mura della loro cella, mentre la mente, esaltata dalle letture e dalle preghiere, vagava in direzione dei luoghi sacri. Si badi che, come ricorda Kathryn Rudy nel suo saggio del 2011 “Virtual Pilgrimages in the Convent” non si trattava di un fatto isolato. Erano in tanti ad agire come le due suore: anche perché il viaggio, oltre a essere difficoltoso, spesso era anche al di sopra delle possibilità di spesa di gran parte della popolazione.
La tecnologia immersiva dell’epoca era quella, ancora considerata innovativa, del libro. I resoconti di viaggi (fatti perlopiù da uomini) erano a quei tempi uno dei generi più diffusi e amati. Il loro dovere era di essere dettagliatissimi, accompagnando ciò di cui parlavano con descrizioni minuziose e raffigurazioni fedeli. Chi leggeva doveva potersele raffigurare nella mente con facilità. Le distanze dovevano essere chiare, così come gli ostacoli incontrati per strada, le tappe, i luoghi delle soste e i monumenti.
Come in una sorta di videogioco senza video, le stanze dei pellegrini virtuali si trasformavano nelle pianure della Germania, diventavano valichi di montagna e coste scoscese, fino ad apparire, nella mente affaticata ed esaltata dalle preghiere, come il paesaggio arido palestinese da cui si potevano scorgere le mura di Gerusalemme.
Il Santo Sepolcro era una delle mete più gettonate, la Via Dolorosa, quella della Via Crucis, quasi un obbligo: qui i resoconti di viaggio (ormai una sorta di manuale per l’immaginazione) dovevano essere il più precisi possibile. Venivano conteggiati i passi per raggiungere i luoghi santi, e le suore li riproducevano, uno dopo l’altro, nelle loro cellette. Una sorta di teletrasporto psichico, aiutato da litanie e preghiere.
La Gerusalemme immaginaria di questi viaggiatori era costruita sulla caterva di particolari forniti dai viaggiatori reali, ma si alimentava anche di pura e semplice invenzione. Diventava un luogo dello spirito, la cui immagine grandiosa proseguì per secoli. Tanto che, quando intorno al 1800 cominciarono i viaggi (veri) verso la città santa, molti dei primi turisti, nutriti di aspettative enormi, si rivelarono delusi.
Insomma, la questione è che, pandemia o meno, gli esseri umani hanno sempre trovato un modo per viaggiare anche senza uscire di casa. Oggi le tecnologie a disposizione sono molto più coinvolgenti, anche se non sempre appaganti. All’epoca era richiesto uno sforzo maggiore, con più concentrazione e dedizione. Compresa una parte di fatica fisica. Anche per questo, forse, erano molto più soddisfacenti.