«I videogiochi sono oppio dello spirito». La Cina, in continuità con la linea di controllo normativo su tutto il settore tecnologico, ha deciso di intervenire anche contro l’intrattenimento videoludico e i suoi presunti effetti sui soggetti più giovani. «Sono droghe elettroniche. Nessuno può essere autorizzato a distruggere una generazione», aveva dichiarato il governo comunista tramite il quotidiano nazionalista Economic Information Daily ad agosto di quest’anno.
Così, nei giorni scorsi, Pechino ha deciso di limitare le ore settimanali di videogames per i minori di 18 anni: massimo 3 per settimana, ad eccezione del week-end.
Dopo la comunicazione, Tencent – holding cinese che detiene il 40% della casa sviluppatrice del fenomeno videoludico “Fortnite” – ha subito un duro colpo alla borsa di Hong Kong. L’azienda opera anche nel settore dei social media (possiede WeChat, il WhatsApp cinese) e con oltre 20 miliardi di dollari di fatturato rappresenta oggi il più grande player dell’industria mondiale del videogioco.
Tencent e il Partito comunista cinese avevano avuto delle divergenze nel 2018, quando Pechino aveva imposto un limite temporale massimo a “Honor of Kings”, titolo mobile proprietà dalla casa con sede a Shenzen. Ma la Cina aveva già alle spalle una storia di restrizioni sul fronte dell’intrattenimento digitale: nel 2000, tre mesi dopo il lancio della leggendaria PlayStation 2 (della giapponese Sony), aveva vietato la vendita di console casalinghe, con un blocco durato quindici anni.
Ora però, il pugno duro adottato dall’entourage di Xi Jinping sta avendo ripercussioni economiche di portata internazionale. Gli effetti sul nostro mercato sono già visibili: stando ai dati Refinitiv, Tencent ha chiuso nei primi sei mesi del 2021 ben 16 accordi commerciali in Europa, portando a 34 il totale degli investimenti intrapresi fuori dalla Cina. Nel 2020 ammontavano a quattro e nel 2019 solo a tre.
Gli affari che l’azienda detiene in Europa riguardano in prevalenza il settore del gaming: tra i nomi più grossi ci sono SuperCell in Finlandia (autori di “Clash of Clans”) e Funcom in Norvegia.
L’aumento degli investimenti all’estero non rappresenta solo una risposta fisiologica all’atteggiamento ostruzionista cinese, ma anche una precisa strategia di consolidamento delle proprie attività nel mercato europeo. Se al 20 agosto dell’anno scorso 56 delle 77 proprietà di Tencent all’interno del settore videoludico erano realtà cinesi (dati Niko Partners), oggi la situazione è cambiata.
I movimenti finanziari cinesi in Europa dovrebbero allarmare le istituzioni per evitare un’ingerenza sempre maggiore nell’ambito del tech. Ma mentre l’Unione monitora le aziende asiatiche che acquistano nel settore dei semiconduttori e della robotica, non sembra invece badare alle attività che riguardano l’intrattenimento videoludico.
Molti degli accordi di Tencent su suolo europeo sono avvenuti tramite filiali con sede nel vecchio continente, in modo tale da evitare il controllo pubblico del moloch cinese. Una strategia di raggiro che sembra funzionare.
Se la penetrazione cinese è così profonda, lo si deve anche all’immobilismo delle aziende europee, restie a investire nel settore. Anche se qualcosa sta cambiando. Realtà come la Polonia dimostrano un dinamismo sconosciuto altrove: nel paese operano oltre 400 case di sviluppo e nel 2019 la borsa di Varsavia ha dato vita a un indice azionario dedicato esclusivamente a questo settore, aumentando del 125% il suo valore complessivo nell’arco di un anno. L’anno scorso, Cd Projekt Red (gli autori della serie “The Witcher”) è diventata l’azienda polacca con maggior valore di mercato tra quelle quotate.
In questo senso, l’Italia non è al passo con i paesi leader. I dati forniti dal report 2020 di Iidea (Associazione editori sviluppatori videogiochi italiani) parlano di un mercato d’acquisto del videogame che ha registrato un giro d’affari di 2 miliardi e 179 milioni di euro, con una crescita del 21,9% rispetto all’anno precedente (complice la pandemia che ci ha relegati in casa). Un ottimo risultato, ma sul fronte della produzione software la nostra industria è in ritardo, e il settore appare ancora immaturo: la realtà italiana non impiega più di 1.100 persone, per un fatturato inferiore ai 70 milioni di euro.
L’Italia può sperare di crescere prendendo a modello paesi come la Polonia? «Non credo e spero che non succeda» spiega Valerio Di Donato, uno dei tre fondatori di 34BigThings, software house torinese tra le realtà più interessanti nell’ambito dello sviluppo di videogiochi nel nostro paese.
«Il nostro è un paese con una grande forza e con grandi capacità realizzative, la nostra industria deve continuare a crescere e coltivare la propria identità, comprendendo le spinte e le motivazioni che hanno portato altre realtà a prosperare. Ma senza prenderle per forza a modello».
L’anno scorso 34BigThings è stata acquisita dal colosso svedese Embracer Group, quotato in borsa. La formula vincente della compagnia si chiama “Redout”, una serie di giochi di corse futuristiche che ha colmato il vuoto lasciato da vecchie glorie del genere (“Wipeout” di Psygnosis e “F-Zero” di Nintendo).
Il futuro di questo settore appartiene agli ottimisti come Di Donato: «Noi ci siamo sempre auto-finanziati. Abbiamo piantato fondamenta solide grazie ai primi contratti che abbiamo firmato. Non bisogna sparare direttamente alla luna: vogliamo tutti arrivarci, ma iniziamo a costruire l’infrastruttura necessaria un passo alla volta».