Nuove frontierePerché l’Italia può essere il perfetto hub per il turismo spaziale

Il mercato dei voli orbitali e suborbitali è in rapida espansione e nei prossimi decenni sarà ancor più diffuso e accessibile di oggi. Il nostro paese ha l’opportunità di ritagliarsi un ruolo da protagonista nel settore, per le competenze scientifiche e il potenziale del territorio

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L’ammaraggio della capsula di SpaceX Resilience, nell’Oceano Atlantico, domenica scorsa, ha concluso il primo volo orbitale di un equipaggio totalmente civile, cioè senza astronauti professionisti. Un’enorme vittoria per l’azienda di Elon Musk e per il settore del turismo spaziale: l’equipaggio della missione Inspiration4 è tornato sulla Terra senza problemi dopo tre giorni in orbita.

Il volo di Resilience è solo l’ultimo tassello dell’enorme trasformazione che sta vivendo l’industria dello spazio: negli ultimi 70 anni il settore è stato appannaggio delle agenzie governative, ma per il futuro si intravede un ruolo sempre più rilevante delle aziende private, lasciando immaginare che presto o tardi voli come quello di Inspiration4 diventeranno sempre più comuni e accessibili.

La banca d’investimento Morgan Stanley, sempre attenta al mercato dell’innovazione tecnologia, prevede che l’industria spaziale possa raggiungere il valore di 1 trilione di dollari entro il 2040, proprio grazie a miliardari come Elon Musk, Richard Branson e Jeff Bezos che stanno spingendo il settore in una nuova età dell’oro.

Le previsioni in questo campo non sono a breve termine – non lo sono mai – ma già oggi si vede l’embrione di quel che potrà essere: l’offerta di turismo spaziale comprende già adesso voli suborbitali, con altezze massime di circa 160 chilometri, e voli orbitali come quello della missione Inspiration4, in un mercato che però è ancora esclusivo, destinato a una nicchia ristretta di persone.

I costi per un lancio spaziale sono ancora alti. Il trend di lungo periodo, però, racconta di una riduzione dei costi, che non è dovuta necessariamente a nuove tecnologie, dice a Linkiesta Didier Schmitt, coordinatore per l’esplorazione umana e robotica dell’Agenzia spaziale europea (Esa). «Le tecnologie usate per i lanci – spiega Schmitt – sono anche piuttosto vecchie, per questo sono diventate meno costose. Se cerchiamo un turning point nella storia dobbiamo risalire al 2011, quando la Nasa ha deciso che non avrebbe prodotto altri space craft e lanciatori, ma si sarebbe limitata a pagare il servizio offerto dai privati».

La chiusura del programma Space Shuttle – ufficialmente Space Transportation System – si deve alla lentezza tipica delle grandi agenzie governative (vale per la Nasa come per l’Esa), che per progetti di questo tipo impiegano tempi lunghissimi, con costi elevati: non possono concedersi errori e devono limitare al minimo i fallimenti, oltre a dover muovere una macchina burocratica più intricata rispetto ad aziende come SpaceX o Blue Origin o Virgin Galactic.

«SpaceX può fare un lancio ogni due settimane, magari un mese, per fare dei test. Può fallire in una cosa e ripartire: la Nasa o l’Esa non potrebbero permetterselo», aggiunge Schmitt.

L’abbassamento dei costi ha allentato le barriere in entrata nel mercato, favorendo l’ingresso e la competizione di diverse aziende – anche piccole – che possono provare a partecipare alla crescita del settore. Un articolo recente di Axios riporta che «le startup spaziali hanno fatto investimenti record l’anno scorso, per 7,6 miliardi di dollari complessivi, mentre un rapporto di luglio di Space Capital ha rilevato che quasi 10 miliardi sono stati investiti da tutte le aziende spaziali solo nel secondo trimestre del 2021».

In un mercato in espansione anche l’Italia potrebbe ritagliarsi un ruolo da protagonista: è un discorso che va dal know-how e le competenze dei ricercatori italiani alla tradizione dell’Agenzia spaziale italiana, che ha sempre un peso rilevante nelle missioni più importanti dell’Esa.

Un esempio è il progetto europeo Space Rider, la navetta riutilizzabile, sviluppata su iniziativa proprio dell’Asi: si tratta di un velivolo senza pilota che verrà lanciato nel 2023 dalla base di Kourou (nella Guyana francese), per realizzare in circa due mesi esperimenti scientifici e tecnologici in condizioni di microgravità, a circa 400 chilometri di altezza dalla Terra.

L’Italia vanta soprattutto competenze ed esperienza nella realizzazione dei moduli abitativi, cioè le strutture in cui si vive quando si è in orbita. «Abbiamo sviluppato gran parte dei moduli usati da Esa e Nasa: le nostre competenze ci rendono un interlocutore privilegiato per moltissimi partner commerciali», ha detto Giorgio Saccoccia, presidente dell’Asi.

All’interno della Stazione Spaziale Internazionale, ad esempio, la cupola dalla quale gli astronauti possono guardare all’esterno e fotografare la Terra e lo spazio – l’abbiamo visto fare anche a Samantha Cristoforetti e Luca Parmitano – è stata realizzata da Thales Alenia Space Italia (TAS-I) su contratto dell’Agenzia spaziale europea.

Il dialogo con le grandi aziende private americane che stanno rivoluzionando l’industria è già avviato. Nel 2018 la Virgin Galactic di Richard Branson ha firmato un Memorandum of Understanding con Altec (joint venture tra Thales Alenia Space Italia e l’Agenzia spaziale italiana) per rendere l’aeroporto Arlotta di Grottaglie, in Puglia, il primo spazioporto europeo adatto ai voli commerciali della Virgin – soprattutto per il sistema riutilizzabile SpaceShipTwo (quello su cui ha volato Branson lo scorso luglio) e del vettore WhiteKnightTwo.

«L’obiettivo è partire con la sperimentazione per i voli suborbitali nel 2023», ha detto il direttore generale dell’Enac, Alessio Quaranta, durante la presentazione del Rapporto annuale dell’Ente, lo scorso luglio. E da circa un anno è in vigore la prima versione del “Regolamento per la costruzione e l’esercizio degli spazioporti”.

Quello dei voli orbitali e suborbitali dovrebbe diventare a tutti gli effetti nuovo segmento del settore turistico, posizionandosi al vertice della categoria luxury. «Oggi il mercato ancora non c’è, quindi non abbiamo un’offerta di questo tipo. Però la nostra capacità di attrazione turistica e le nostre competenze nel settore spaziale potrebbero essere messe a sistema in futuro per intercettare una nuova classe di turisti alto spendenti», dice a Linkiesta la presidente di Federturismo, Marina Lalli, ricordando però che siamo solo alle fasi preliminari ed è presto per pianificare qualsiasi cosa.

Portare il mercato dei voli spaziali in Italia sarebbe soprattutto un’occasione per valorizzare il territorio strutturando l’accoglienza per quei turisti che, a fronte di un volo di qualche ora o qualche giorno, sceglieranno di allungare la vacanza nel pre o nel post volo. Anche perché fino a oggi i luoghi dei lanci sono sempre piuttosto remoti: il panorama italiano potrebbe offrire ben altre opzioni ai turisti rispetto al New Mexico da cui è partito a luglio Richard Branson o il deserto del Texas che ha visto il lancio di Jeff Bezos con la sua Blue Origin.

Valorizzare il territorio non è così scontato. Durante l’intervista, la presidente Lalli cita uno degli spunti di riflessione più frequenti quando si parla di nuove industrie: «Se da un lato dobbiamo sondare il terreno per ritagliarci, se possibile, un ruolo in questo mercato, dall’altro avremo una reale conveniente solo se potremo valutare con attenzione il bilanciamento tra tutela e fruizione dei territori, quindi misurare l’impatto di emissioni e conseguenze in termini di riscaldamento globale e sostenibilità di questi lanci».

L’inquinamento dei viaggi spaziali, infatti, non riguarda lo spazio e l’orbita terrestre: in questi voli non ci sono detriti da abbandonare. Ma di sicuro c’è da valutare l’impatto ambientale delle emissioni.

Eloise Marais, docente di geografia fisica alla University College of London, ha pubblicato un lungo articolo su The Conversation in cui ha analizzato l’impatto che potrebbe avere l’industria spaziale sulla salute dell’atmosfera.

«I lanci spaziali rilasciano fino a 100 volte più CO2 per passeggero rispetto a quella di un volo intercontinentale. Ma ancora non è possibile stimare l’effetto complessivo dei lanci nell’atmosfera: servirebbero dei modelli più dettagliati di quelli che abbiamo oggi, con informazioni su tutti i processi chimici e della persistenza degli inquinanti negli strati più alti dell’atmosfera», si legge nell’articolo.

La stessa dottoressa Marais, però, specifica che l’innovazione tecnologica potrebbe cambiare i parametri per tutta l’industria: già oggi c’è differenza tra i razzi lanciatori di Blue Origin, che usando idrogeno liquido e ossigeno liquido non emettono anidride carbonica, e quelli di SpaceX, i cui i lanciatori della serie Falcon usano invece una combinazione di cherosene e ossigeno liquido.

Il turismo spaziale sta già rivoluzionando un’industria che, per definizione, guarda sempre al futuro: sarebbe quanto meno opportuno valorizzare a pieno il potenziale dell’industria senza danneggiare il futuro del pianeta.