Se Enrico Letta non vuole Mario Draghi al Quirinale e intende candidarsi politicamente (formalmente non è possibile) a presidente del Consiglio alle elezioni del 2023, la conseguenza logica è che il segretario del Partito democratico non vede per Draghi un gran futuro. Da questi schemi risulta infatti che dopo le elezioni politiche il presidente del Consiglio resterebbe senza incarico e indotto magari a tornare in Europa alla guida della Commissione europea per succedere a Ursula von del Leyen.
Inutile chiedere lumi al numero uno del Nazareno, vi risponderebbe che è tutto prematuro. E invece tutti i calcoli si stanno facendo adesso, di qui a dicembre, quando occorrerà avere chiara in testa una strategia per il Quirinale: il 6 gennaio Sergio Mattarella si dimetterà formalmente e le danze saranno di fatto aperte.
Letta ha detto e ripetuto che Draghi deve restare a palazzo Chigi fino alla fine della legislatura. Niente Colle. Dopo l’elezione del nuovo (o conferma dell’attuale) Capo dello Stato si aprirà l’ultimo anno di una tribolata legislatura che verosimilmente sarà ricordata in tre fasi: l’egemonia grillino-leghista, la crisi grillina e l’unità nazionale, la forza di Draghi e la crisi dei sovranisti.
Nella seconda parte del 2022 si entrerà virtualmente in campagna elettorale, si costruiranno le alleanze, se ne individueranno i capi. Nello schema superbipolarista di Letta (Pd e alleati contro la destra) non c’è spazio per Draghi. Se non come punto di riferimento fortissimo del centrosinistra: e già sarebbe un bel passo avanti rispetto a Giuseppe Conte, che venne così definito da Nicola Zingaretti negli anni della grande subalternità del Pd al populismo grillino. Il segretario immagina uno scontro campale tra lui e Matteo Salvini.
La visione di Letta a guardar bene conferma indirettamente la lettura bettiniana del draghismo come parentesi tecnica all’interno del normale conflitto tra destra e sinistra, chiusa la quale per l’ex Governatore della Banca centrale europea ci sarebbe un dorato benservito europeo con tutti gli onori: ma la Politica – dalemianamente con la P maiuscola – tornerebbe prerogativa dei partiti, o meglio, del Partito (altra P maiuscola), lettura corroborata dalla (relativa) ripresa del Pd soprattutto grazie al crollo grillino e all’incipiente crisi della destra sovranista: per il Nazareno un’ottima congiunzione astrale, anche perché mette fuori gioco la grottesca idea del ritorno a palazzo Chigi dell’avvocato del popolo in una sua terza reincarnazione, stavolta come leader del centrosinistra.
Ma la questione di Letta candidato presidente del Consiglio (ricordando sempre che questa è una figura che formalmente non esiste e che in caso di ritorno di un vero proporzionale sarebbe addirittura impensabile) presenta due aspetti critici. Quando il Pd ha proposto il suo segretario come possibile capo del governo ha sempre perso (Walter Veltroni 2008, Pier Luigi Bersani 2013, Matteo Renzi 2018): è un caso o vorrà dire qualcosa? Secondo e più rilevante problema: può l’Italia rinunciare alla capacità di governo di Mario Draghi? O si pensa che Enrico Letta abbia le capacità di inventarsi un draghismo senza Draghi?
Sono domande di valenza strategica, intimamente complesse, che il Pd deve cominciare a porsi, anche considerando la non impossibile evenienza che si vada alle elezioni già l’anno prossimo. Su queste cose non si può sbagliare, né decidere all’ultimo momento. Perché gli avversari di Letta hanno le idee più chiare, e per questo partono in vantaggio.