Dopo oltre dieci anni di dominio incontrastato, Viktor Orbán rischia per la prima volta di perdere le elezioni. Per il leader sovranista continuano i problemi dopo lo scandalo sullo spionaggio ai danni di giornalisti e dissidenti tramite lo spyware israeliano Pegasus, assieme alle minacce della Commissione europea sul possibile stop dei fondi europei per il mancato rispetto dello stato di diritto.
«Costruire uno stato illiberale, che prenda esempio da Paesi come Russia, Cina o da quegli Stati che non sono liberal-democrazie e forse neanche democrazie, ma sono di successo». Con queste parole Orbán nel suo celebre discorso del 2014 dichiarava apertamente al mondo il suo progetto di trasformazione dell’Ungheria, consolidando il suo regime autoritario. Una nazione oggi completamente trasformata, che ora intravede una possibilità di tornare al passato democratico.
A quasi due anni dallo storico annuncio della coalizione d’opposizione, nata nel dicembre 2020 sotto la guida del frontrunner Gergely Karacsony, ex-sondaggista, oggi sindaco di Budapest dal 2019 e principale candidato al ruolo di avversario politico del premier ungherese. A oggi sono sei i partiti principali uniti dalla crociata per spodestare il veterano Orbán, già al terzo mandato consecutivo. Un gruppo variegato formato anche da linee di pensiero molto differenti e distanti tra loro, ciò nonostante unite in un accordo contro il nemico comune.
Tra questi troviamo il partito di estrema destra Jobbik, Il Partito Socialista Ungherese-Dialogue (MSZP), Coalizione Democratica (CD), i verdi di LMP, i centristi di Movimento Momentum, e il partito ecologista di centrosinistra Dialogo per l’Ungheria (Párbeszéd). Nonostante la posizione del partito della maggioranza Fidesz rimanga predominante, grazie alle enormi risorse e alla potente influenza mediatica, per l’opposizione si tratta della migliore opportunità di vittoria mai avuta finora.
«L’opposizione si è unita perché la nostra causa prevale su ogni differenza». Queste le parole di Karacsony in un recente articolo del Financial Times. E alle parole sono seguiti subito i fatti, tanto che tutti e sei i partiti coalizzati hanno messo da parte le loro divergenze, hanno cominciato a trovare candidati comuni per ogni seggio parlamentare del nuovo governo che si andrà a comporre in caso di vittoria, stabiliti tramite le elezioni primarie che termineranno il 10 ottobre.
Al momento lo scenario in Parlamento si compone dei ben 133 seggi su 199 totali sotto il controllo della maggioranza, divisi tra i 116 di Fidesz e i 17 del Partito Popolare Cristiano Democratico. Mentre i restanti 66 – con l’unica eccezione del partito dell’Autogoverno nazionale dei tedeschi in Ungheria – sono distribuiti tra i partiti dell’opposizione, rispettivamente Jobbik (26), Il Partito Socialista Ungherese-Dialogue (20), Coalizione Democratica (9), i verdi di LMP (8). Infine i restanti 16 seggi sono suddivisi tra i vari esponenti del gruppo dei Non Iscritti.
A inseguire Karacsony nei consensi per la corsa al ruolo di anti-Orbán, Klara Dobrev del partito di Coalizione Democratica, vice-presidente del Parlamento europeo nonché moglie dell’attuale leader di partito ed ex-premier Ferenc Gyurcsany. Dietro di lei Peter Jakab, ex-presidente del partito di estrema destra Jobbik.
Stando ai dati di diversi sondaggi ungheresi realizzati tra l’inizio di maggio e la fine di agosto 2021, le percentuali di Fidesz nelle preferenze degli elettori oscillano tra il 34-45%, mentre la lista della coalizione si colloca tra il 33-42%. Dunque per il partito di maggioranza si prospetta una situazione, sì vantaggiosa – con circa il 40% dei consensi – ma ben diversa dalle ampie vittorie del passato. Il 49% dei votanti dichiara una voglia di cambiamento. Un dato di gran lunga superiore ai consensi attuali della maggioranza
Ma allo stesso tempo la maggior parte di questi elettori si dichiara passiva e pessimista, tanto che solo un quinto di loro si dice sicura di volersi recare alle urne e solo un quarto crede veramente in una possibile vittoria dell’opposizione alle elezioni. Eppure basterebbe appunto solo quel 9% di elettori in più a fare la differenza ad aprile. Bisognerà vedere se la nuova coalizione dell’opposizione sarà effettivamente in grado di guadagnarsi la fiducia dei cittadini e concretizzare questo diffuso desiderio di svolta.
Un altro segnale indicativo della gravità della situazione per Fidesz è l’aggressiva campagna politica portata avanti finora dal partito sovranista, che ha reagito sin da subito prendendo sul serio la minaccia. Assalti mediatici e slogan come «Stop Gyurcsany! Stop Karacsony!» – frase che mira a riportare alla memoria degli elettori i passi falsi compiuti dal governo socialista precedente all’ascesa di Orbán – contro i principali avversari dell’opposizione sono all’ordine del giorno.
Tra i bersagli favoriti i principali tre candidati in corsa per il ruolo di capolista, in particolar modo Dobrev, seppur indirettamente con attacchi rivolti verso il marito Gyurcsany, e, ovviamente, Karacsony stesso.
Ma se davvero dovesse arrivare la vittoria alle elezioni di aprile 2022, è fondamentale che il nuovo governo sia in grado di coordinarsi al meglio sin da subito. In tal senso, la strategia che sembra delinearsi nell’opposizione è quella di «pensare già adesso a un governo ombra», come ha confermato Jakab al Financial Times durante una tappa della sua campagna elettorale nella periferia di Budapest: «Dovremo prepararci a guidare il paese sin dall’inizio, mentre Fidesz farà del suo meglio per fermarci».
Sconfiggere Fidesz alle urne rappresenterebbe solo il primo passo per abbattere il sistema instaurato da Orbán e dalla sua struttura di potere e controllo autoritario. Il governo ungherese – formalmente una democrazia, di fatto un autoritarismo – è oggi saldamente sotto il pieno controllo dell’autocrazia oligarchica instaurata da Orbán, grazie alle progressive conquiste delle principali istituzioni ottenute negli ultimi anni.
Un regime contraddistinto da un forte accentramento di potere, dove le principali risorse e istituzioni vengono affidate ai pochi fedelissimi eletti di Orbán. Un sistema costruito sui soldi dove non c’è alcuna possibilità di contraddittorio, avversari politici, giornalisti e dissidenti vengono monitorati tramite software di spionaggio e la corruzione divampa, permeando ogni organo governativo e ogni istituzione.
Per farsi un’idea della portata dell’influenza del premier nel Paese, basta ricordare come nel 2011 un numero limitato di persone scelte da Orbán – e guidate dal suo fedelissimo Jozsef Szájer, fino allo scorso dicembre membro del Parlamento europeo – in poche settimane scrisse la nuova Costituzione ungherese, proclamata il giorno di Pasqua e definita per questo Húsvéti alkotmány (Costituzione di Pasqua). In pochi mesi vennero modificate più di 300 leggi. Fu l’inizio del cambiamento di un’intera nazione, oggi completamente ridisegnata a immagine e somiglianza del suo leader.
Dal sistema educativo a quello giudiziario, dalla Procura ai principali media nazionali, fino ad arrivare al Tribunale Costituzionale: tutti elementi sotto il controllo del Presidente della Repubblica ungherese – carica creata ad hoc dallo stesso Orbán – nei soli ultimi due anni. L’unico fallimento è stato il tentativo di impossessarsi della Banca nazionale, impedito solo dalla forte opposizione dell’Unione Europea e del Fondo Monetario Internazionale.
Non basta vincere le elezioni. Il processo di smantellamento del sistema di Orbán richiederà enormi sforzi per poter attuare importanti riforme legislative – su tutte il ripristino di un effettivo stato di diritto, per evitare di perdere i fondi di recupero europei dell’emergenza pandemica – e soprattutto una collaborazione duratura di tutta la coalizione. Altra priorità del potenziale nuovo esecutivo sarà quella di smontare la riforma delle università attuata da Orbán e tornare al sistema precedente, investendo maggiormente sull’educazione secondaria.
Ma per Karacsony proprio la natura del sistema stesso racchiude in sé una grande falla, in grado di abbattere il castello di carta costruito da Orbán: «Il sistema è costruito sul denaro… Se il nuovo governo tagliasse i fondi pubblici, il sistema allora imploderebbe su sé stesso». Resta solo da vedere se i vari partiti dell’opposizione riusciranno a tener fede alle proprie parole e rimanere uniti, in primis fino al momento delle elezioni, ma soprattutto anche nei momenti decisivi delle scelte del nuovo potenziale governo.