Cacciari a vitaLa casta inossidabile degli opinionisti da talk show

Editorialisti e politologi perdurano nel tempo indisturbati, forti della loro nomea di intellettuali. Ai tuttologi - come l’ex sindaco di Venezia - viene perdonato proprio tutto, anche e soprattutto i fiaschi

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Uno dei grandi misteri italiani, insieme al sangue di San Gennaro e ai cantieri della Salerno-Reggio Calabria, è l’abissale divario delle aspettative di vita tra politici e politologi. Un Presidente del Consiglio raramente mangia il panettone due Natali di seguito, i leader passano dagli altari alla polvere in tempi sempre più rapidi. È capitato a Matteo Renzi, sta capitando a Matteo Salvini, presto forse sarà la volta di Giorgia Meloni. I consigli di amministrazione dell’Atac e dell’Unicredit, i board delle fondazioni saudite e le cattedre di Sciences Po rigurgitano di politici trombati.

Intellettuali e opinionisti, invece, non hanno bisogno di essere riciclati per il semplice fatto che nessuno li tromba. Invecchiano serenamente sulle prime pagine e nei talk show, incuranti dei sondaggi e delle elezioni, dei cambi di stagione e di governo, delle pandemie e delle recessioni. Se gli scappa qualche minchiata, i social li massacrano per qualche ora o per un giorno, poi se ne dimenticano, e loro riprendono imperterriti a pontificare. Eterni, inamovibili come le concessioni balneari.

Silvio Berlusconi sarà bollato per il resto dei suoi giorni come il papi del bunga bunga, a Renzi (per gli amici “il cazzaro di Rignano”) non verrà mai perdonata la batosta del referendum costituzionale o l’infelice sortita sul rinascimento arabo, Pier Luigi Bersani resterà sempre il leader della «non vittoria» alle elezioni del 2013, Salvini passerà alla storia come il bullo del Papeete. Gli intellettuali, invece, sopravvivono gagliardamente ai propri fallimenti.

A Massimo Cacciari, per esempio, nessuno rinfaccia il fiasco del partito del Nord-Est, lanciato alla fine degli anni Novanta insieme all’industriale veneto Mario Carraro e subito dissolto nelle nebbie della laguna, o la sua sponsorizzazione (insieme a Clemente Mastella) dell’allora governatore di Bankitalia Antonio Fazio a candidato presidente del Consiglio del centrosinistra nel 2001 (quattro anni dopo sarà costretto a dimettersi per le accuse di aggiotaggio e insider trading), oppure il flop di Verso Nord, il movimento da lui fondato nel 2010, o ancora, l’anno successivo, la bocciatura di Giuliano Pisapia come aspirante sindaco di Milano in quanto a suo dire troppo «radicale».

Massimo gli avrebbe preferito Gabriele Albertini, e sappiamo com’è andata: un trionfo. Allo stesso modo, nessuno rimprovera a Ernesto Galli della Loggia di avere definito, nel 1994, Forza Italia «partito di plastica» (è poi durato vent’anni) né di avere dato credito a Virginia Raggi e al partito del vaffa nella lungimirante convinzione che potesse rinnovare la classe dirigente del paese. Così come tanti si prostrano al genio di Carlo Freccero, creatore della Raidue di trent’anni fa, e ben pochi rammentano il naufragio della Raidue sovranista del 2019, la famigerata Televisegrad con Gianluigi Paragone e gli speciali su Beppe Grillo.

La verità è che questi signori erano già in ballo ai tempi della tv in bianco e nero, quando per le strade circolavano le Fiat Duna. Davano del tu a Enrico Berlinguer e a Mariano Rumor, e i primi articoli li dettavano ai dimafonisti, perché non esisteva neppure il fax (quando è arrivato Internet, molti di loro l’hanno presa per una moda passeggera). Poi uno si stupisce che un Cacciari o un Giorgio Agamben considerino il green pass un’angheria di stampo nazista, o che propongano comunità stile Amish per chi lo rifiuta, o che Freccero farnetichi del “Grande Reset” ordito dalle perfide élite globali per ridurci in schiavitù: prima i vaccini, poi la rivoluzione digitale e la rivoluzione verde. Sono uomini di un altro secolo (dovrei dire siamo, visto che hanno più o meno la mia età). Somigliano al don Ferrante dei Promessi Sposi, che si ostinava a inquadrare la peste nelle categorie della filosofia aristotelica, negandone l’esistenza. Salvo poi beccarsela non avendo preso nessuna precauzione. 

Oggi non basta aver studiato Michel Foucault o Martin Heidegger ed essere entrati nel catalogo di Adelphi. Non basta sapere tutto sulle foibe, o aver bazzicato fin da piccoli nei corridoi di Rai e Mediaset. Per capire il mondo contemporaneo devi avere almeno qualche idea di cosa sia lo mRna o l’editing genetico, le energie rinnovabili e i pozzi di assorbimento della CO2, di come funzionino gli algoritmi della rete e l’Intelligenza artificiale o di cosa abbia in mente “Mister Ping” per espandere il dominio cinese in Asia e nel Pacifico.

Anche Indro Montanelli ha lavorato fino all’ultimo, ha pure scritto il proprio epitaffio. Ma era Montanelli, e qualche boiata è sfuggita perfino al lui (anche se non c’erano Facebook e Twitter a farglielo notare). Dopotutto quello dell’opinionista è un mestiere usurante, almeno quanto il bidello. Sia per chi lo pratica che per chi lo subisce, lettori e spettatori.

Sul New York Times o sui grandi network americani non vedi le stesse firme e le stesse facce dell’epoca di Ronald Reagan. Certo, Bob Woodward sforna ancora i suoi libri su Trump, ma i columnist sono in maggioranza trenta-quarantenni, e iperspecializzati. In Italia, gli editorialisti sono una casta inossidabile, buona per tutti gli usi e per tutte le stagioni. Tuttologi a lunga conversazione. Cacciari a vita. 

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