Enologia meneghinaDa Montevecchia a San Colombano, i vini di Milano alla riscossa

Crescono, maturano e vengono imbottigliati a meno di 40 chilometri dalla Madonnina, sono buoni e meritano più di un assaggio. La città dai mille volti stupisce anche quando si versa nel bicchiere

Vin nostran, vin di noster campagn,
ma legittem, ma s’cett, ma sinzer,
per el stomegh d’on bon Milanes
ghe va robba del noster paes.
Nun che paccem del bell e del bon,
fior de manz, de vedij, de cappon,
fior de pan, de formaj, de butter,
no emm besogn de fà el cunt coj biccer…
(Carlo Porta, Brindes de Meneghin a l’ostaria)

Lo spiegava già Carlo Porta: per lo stomaco di un buon Milanese ci vuole un vino schietto e sincero. E perché andare a cercarlo lontano, quando il vino “nostrano” si può trovare alle porte della metropoli? Non occorre guardare lontano per trovare vini di qualità, anzi, a una manciata di chilometri dalla Madonnina si trovano produzioni poco note ma sicuramente interessanti. Dove? A San Colombano e in Brianza.

San Colombano: il vino di Milano per antonomasia (e per tradizione)
«È questo un vago fertilissimo colle, posto quasi nel mezzo della Gallia Cisalpina, cui dalla parte esposta a Borea e a Euro è prossimo San Colombano, castello assai noto e cinto di forti mura». Con queste parole Petrarca descrive il colle che sorge a 40 chilometri dal Duomo di Milano, che con i suoi filari dà vita a quello che è sempre stato storicamente considerato il vino del capoluogo lombardo. «Sorge nel bel mezzo della pianura, in un posto dove in tempi remoti si trovava il mare». A raccontare la storia e la geografia di San Colombano è invece Giuliano Toninelli, che nella sua azienda Poderi San Pietro il vino lo produce, con passione e competenza. È lui a spiegare che: «Fu il santo Colombano a riportare la vite qui nel 1.400, dopo un lungo periodo di incuria. Il monaco arrivava dall’Irlanda, e portò con sé cloni francesi, che unì a cloni del posto: Uva Rara e Verdea su tutti. Così è nato il vino di Milano: lo portavano in città con i cavalli, a creare un legame che ancora oggi unisce San Colombano al Lambro alla metropoli: siamo infatti parte della Città Metropolitana di Milano, una scelta fatta con un referendum, che poneva in alternativa la provincia di Lodi».

La particolarità di questa collina non è solo storica, ma anche geografica: «È un colle a dorso di mulo alto circa 150 metri, lungo 6 chilometri. Sono 200 gli ettari vitati, dei quali una ventina sono abbandonati e in via di recupero. A lavorare nelle vigne, una decina di aziende, quasi tutte piccole, a conduzione famigliare. Un consorzio coordina le attività, e sono state istituite una DOC, che racchiude e tutela i vini prodotti a partire dai vitigni tipici, e una IGT, che comprende quelli prodotti con vitigni internazionali. Ovviamente, nell’ambito della DOC si producono meno bottiglie, perché ci sono limiti più severi».

I vini storicamente prodotti sulla collina sono rossi «Ma», continua Toninelli, «tutti stiamo reimpiantando bianchi, soprattutto bianchi da spumanti, come lo Chardonnay. I rossi tradizionali sono rossi frizzanti, anche se si producono sempre meno: la Bonarda si beve volentieri in estate, si serve fresca, si beve senza impegno. E poi ci sono Croatina, Uva Rara per la DOC, oltre alla Verdea, tipicamente locale: era inizialmente un’uva da tavola, poi si è iniziata a vinificare. Da sola dà vini molto tannici, ma con Pinot grigio o Chardonnay genera vini particolari. Ne è rimasta poca, ma vale la pena recuperarla: non è nella DOC proprio perché è ancora troppo poca, ma si trova solo qui; non ce n’è in Oltrepò, né nel Piacentino». Ai vitigni locali si affiancano quelli internazionali: «Soprattutto Merlot e Barbera. Negli ultimi vent’anni si sono iniziati a produrre anche rossi strutturati, con un passaggio in botte. Anche il DOC San Colombano viene invecchiato, ma in generale ci stiamo lanciando sugli spumanti e sui vini invecchiati. E i riconoscimenti non mancano, stiamo lavorando bene».

Per gli amanti della leggerezza, ci sono i rosati: «Noi ne produciamo uno fermo, il Nuè, e un Pinot Rosè Extra Dry, e anche altre aziende li fanno: abbiamo preso ispirazione dai francesi, realizziamo rosati con poco colore, in contrapposizione con l’Oltrepò, dove i rosati sono molto carichi». Se la DOC San Colombano fa circa 400mila bottiglie, tutta la collina, comprendendo l’IGT arriva a 2 milioni: «Ci sono undici aziende nel consorzio. È piccolo, ma non è il più piccolo in assoluto, e vorremmo rilanciarlo: in particolare vogliamo cogliere l’occasione delle Olimpiadi invernali di Milano».

Del resto, anche il territorio di San Colombano è un piccolo gioiello da scoprire: «Già il Covid ha portato a rivalutare la zona, i milanesi si sono riavvicinati alla collina. E ne vale la pena: ci sono da visitare il castello e le cantine, che si possono raggiungere anche a piedi. Si fanno belle passeggiate e picnic in vigna. Si possono assaggiare salumi e formaggi locali. Qui si allevano vacche e maiali, siamo vicini a Sant’Angelo, dove si coltiva il riso, e si preparano piatti saporiti, come il risotto con la pasta di salame. Tra poco costituiremo un Distretto Agroalimentare, che comprenderà produttori, ristoranti, agriturismi eccetera, il Distretto Agroalimentare delle Colline di San Colombano».

Dalle colline della Brianza, il vino di Montevecchia
Risalendo il corso del Lambro, all’altro capo della metropoli si stendono altre colline: è la Brianza, la porta verso i laghi, con le sue ville patrizie, le sue pievi medievali e le abbazie romaniche, con le sue fabbriche e le sue vigne. E in Brianza Montevecchia si affaccia come un balcone verso Milano. Qui si produce quello che per Mario Soldati è «l’unico vino che potrebbe ambire ragionevolmente a un titolo che sembra assurdo e che non è: “il vino di Milano”. […] Milano, metropoli industriale, ignara di avere alle proprie porte questa meravigliosa possibilità». Ed è proprio Soldati a far notare che «misurato sulla carta, in linea d’aria, Montevecchia dista dalla Madonnina  24 chilometri, San Colombano 40». Così come è sempre Soldati a magnificare la posizione geografica di tutta la Brianza, ideale per la coltura della vite, affacciata «come un immenso spalto tra un ramo e l’altro del Lago di Como». Ed è dalle sue parole che prende l’avvio Mario Ghezzi, titolare dell’Azienda Vitivinicola Terrazze di Montevecchia nel raccontare il suo vino e la sua terra: «Il vino di Montevecchia è buono», dice con orgoglio. «Quando lo faccio assaggiare a qualcuno e mi dice che è buono, rispondo sempre: “Certo che è buono, lo faccio io. Ti sembro un pirla?”. Ed è buono per forza: qui a Montevecchia abbiamo le migliori condizioni, un terreno tra i 400 e i 500 metri di altitudine, viti che crescono su terrazzamenti dove non c’è ristagno, una bella esposizione al sole. Basta mettere i vitigni giusti. Noi sappiamo che se il produttore vuole fare un vino buono non mette un vitigno che produce troppo: qualità e quantità raramente vanno a braccetto».

E la qualità per Ghezzi è tutto: «Certo, non faccio un vino di massa, ma un vino che quando uno lo assaggia deve esclamare “Purtinara!” per la sorpresa, per quanto è buono. Ed è buono proprio perché siamo a Montevecchia, una zona che non ha niente da invidiare alla Valtellina, alla Franciacorta, all’Oltrepò».

L’avventura tra le viti di Terrazze di Montevecchia è iniziata 25 anni fa, con la consulenza di Attilio Scienza, «che era già il numero uno tra gli esperti di viticoltura. Avevo un impianto da mezzo ettaro, i miei amici mi dicevano “Cosa lo chiami per fare? Non si muove neanche per 50 ettari”. Ma io volevo vedere se c’era un vitigno autoctono, immaginavo già i titoli sul giornale. Così sono andato a cercare l’esperto a un Vinitaly, l’ho approcciato proprio citando il brano di Soldati. E alla fine è venuto, e ha fatto un giro sulle viti vecchie: Merlot, Lambrusco, Trebbiano. Ma niente di autoctono. Allora, per avere il miglior vino possibile, abbiamo puntato su qualcosa di nuovo per l’epoca: Syrah e Viognier, diffusi nella Côtes du Rhône. Così ho fatto un giro in quella zona e mi sono detto: se fanno vini buoni qui, sarò capace di farcela anche io. Dopo quattro anni ho messo anche Merlot, Chardonnay e Sauvignon Blanc. Oggi faccio cinque vini: il Pincianell, che ha il nome con cui venivano chiamati i vini locali, i “nostranelli”, nome che deriva da “pinciroeu”, acino d’uva in dialetto brianzolo; lo facciamo bianco e rosso. Poi il Cepp, con un passaggio in barriques: il suo nome indica la roccia, perché la collina su cui cresce dà il cemento, e quando scavavi con la trivella trovavi spesso una roccia, un “cepp”, ed era un guaio. Il bianco riserva è il Munciar, “monte chiaro” in italiano, prodotto da uva surmatura, che prende nome dal luogo in cui si trovano le viti. E poi il Metodo Classico, lo Champagne della Brianza, il Terrazze di Montevecchia Brut: BB lo chiamo, in omaggio a Brigitte Bardot, perché è come lei, biondo, di classe e spumeggiante, e le iniziali sono anche quelle di Bollicine Brianzole».

Tutti i vini sono prodotti nell’ambito della IGT Terre Lariane consorzio che opera tra Lecco e Como dal 2009. I destinatari? «Il mercato locale, i ristoratori della zona, che comunque spesso faticano a capire il valore aggiunto». Fino a quando Milano non si accorgerà dei tesori che vengono imbottigliati a pochi minuti dalle sue porte.

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