Al turista curioso che segue itinerari mai prima percorsi, può capitare di trovarsi in luoghi del tutto sconosciuti, dove gli abitanti del posto parlano fra loro una lingua di difficile comprensione. La Carnia, comparto montano del Friuli, è uno di questi luoghi, bellissimo eppure poco conosciuto dagli italiani che fino a poco tempo fa, cioè fino al diffondersi della pandemia non ancora debellata, sognavano per le loro vacanze i Caraibi, Copacabana, l’isola di Bali, le Seychelles, la Thailandia o, più recentemente Dubai, invece di una qualche località italiana. La Carnia si trova all’estremo nord dell’Italia, confina con l’Austria ed è più conosciuta da austriaci e tedeschi che dagli italiani. Questa mini regione dolomitica appartenente al Friuli Venezia Giulia, dove si trovano ristoranti meritatamente famosi con il Laite a Sappada, aziende agroalimentari come il Prosciuttificio Wolf a Sauris, artigiani d’alta qualità come la Carnica Arte Tessile a Villa Santina, borghi pittoreschi come Pesarijs, montagne conosciute nel mondo come lo Zoncolan, caro agli amanti del ciclismo d’ogni continente. E chi arriva per caso o, più spesso, per scelta e si ferma in qualche ristorante, trattoria o rifugio montano, trova ovunque un piatto che c’è solo in questi luoghi: i cjarsons (si pronuncia anche chiarsons e la pronuncia varia da valle a valle).
In questo territorio geografico che ha come capoluogo Tolmezzo, oltre alla Val Tagliamento, formata dal tratto iniziale dell’omonimo fiume che l’attraversa tutta da ovest ad est, ci sono altre tre grandi valli: Valle del But, o Canale di San Pietro; Val Degano o Canale del Gorto; Val Chiarsò o Canale di Incarojo o Val di Paularo. Poi ci sono quattro valli minori: Val Calda, Val Pesarina, Val Lumiei e Val Pontalba. Ho citato con diligenza certosina tutte le valli della Carnia, ciascuna delle quali è caratterizzata da un fiume – il Tagliamento e i suoi sette affluenti – e sono valli i cui abitanti parlano dialetti fra loro diversi, poiché per secoli e sicuramente fino a tutto l’Ottocento, con i lunghi inverni freddi e nevosi, i rapporti tra valle e valle e anche con Tolmezzo e il capoluogo del Friuli, Udine, erano molto difficili e quindi rari, solo se obbligati. Per secoli i matrimoni avvenivano fra persone della stessa valle e così le tradizioni anche gastronomiche si sono conservate intatte fin quasi ai nostri giorni, come si vede visitando il museo delle Arti popolari di Tolmezzo. La storia di questa terra inizia con la presenza umana nel Paleolitico, documentata a partire del 400 a.C. quando vi arrivarono i Celti, detti poi Gallocarni, che nel 186 a.C., in circa 12 mila tra uomini armati, donne e bambini, scesero verso le zone pianeggianti che utilizzavano per svernare e fondarono su un colle un insediamento fortificato stabile, Akileja, costringendo i Romani a dedurre cinque anni dopo la colonia di Aquileia.
Questi brevi cenni per far capire che la Carnia ha storia lunga, complessa e interessante e gli abitanti, rimasti poi rinchiusi nelle loro valli, dapprima dai Romani, poi dai Longobardi e da altri invasori, quindi anche dalla difficoltà di scendere in pianura e dall’abitudine di vivere in tranquillo isolamento, elaborarono in ogni valle un proprio stile di vita, un proprio linguaggio e una propria cucina, basata soprattutto sugli scarsi prodotti del territorio elaborati nel corso del tempo fino agli ultimi decenni del secolo scorso quando emerse uno dei grandi chef italiani, Gianni Cosetti, ammirato dai più noti gourmet e gastronomi italiani ed esteri che andavano a trovarlo nel suo ristorante, il Roma di Tolmezzo, nel quale serviva sia la vecchia cucina del territorio che le sapienti innovazioni dettate dal suo genio gastronomico. E dagli inizi di questo secolo a imporsi come moderna interprete di questa cucina è stata una giovane donna, Fabrizia Meroi, chef-patron del Laite di Sappada, considerata dalla critica una delle migliori e più interessanti cuoche italiane.
Ed è lungo questo percorso storico che sono nati i cjarsons, che, lo diciamo subito, sono dei fagottini formati da una pasta, di farina o di farina e patate, contenente uno straordinario ripieno. Il nome, cjalzons o cjalsons o cjarsons, nelle diverse varianti, come ha scritto Silvia Marcolini, attenta studiosa della cucina carnica, rimanda al latino medievale calzone e risulta presente in Friuli già alla fine del 1300 nella variante çhalçons, già allora correlata al sapore dolce che contraddistingue ancora oggi una delle due varianti (l’altra è quella con le verdure).
L’inquadramento temporale consente di stabilire innanzitutto una gerarchia cronologica fra le due tipologie di pasta e consente di posticipare la variante con patate rispetto a quella con pasta matta (la patata avrà infatti diffusione in regione solo dall’Ottocento). Altri elementi sono desumibili dal cuore, vale a dire dalla farcia. Fra gli ingredienti del pistùm esistono alcuni “fossili gastronomici guida”, ossia degli elementi che servono a datare una consuetudine, fra questi alcune spezie, in particolare la cannella. In epoca medievale questa merce veniva considerata un lusso e l’arrivo di questo prodotto profumato, giunto dal vicino Oriente e destinato all’uso dei re, nel territorio della Carnia è sicuramente da attestarsi a una fase successiva. Bisogna arrivare all’epoca moderna caratterizzata dalla presenza dei cramârs, i mercanti ambulanti che facevano la spola tra Venezia e Augusta, l’Augusta Vindelicorum dei latini, l’attuale Augsburg in Baviera, e che si dedicavano, fra l’altro, allo smercio di questi profumi. Il secolo d’oro di questi viaggiatori d’Europa è il Settecento, epoca in cui è probabile si sia diffuso l’utilizzo della cannella non come acquisto ma come recupero di rimanenze, per aromatizzare mele o pere (ma anche polenta), in sintonia con i territori di lingua tedesca vicini, altra meta frequente degli ambulanti e dei numerosi emigranti che nei loro trasferimenti importavano usanze e innovazioni. Lo stesso vale per l’uva passa e ancora di più per il cioccolato, entrato nella disponibilità in una fase ancora successiva.
Sempre all’area tedesca attiene il gusto agrodolce che caratterizza alcune elaborazioni, così come l’uso della frutta per i ripieni di pietanze salate. Per quanto riguarda la variante con verdure, spesso spontanee ma anche coltivate e composte in un’armonia di sapori davvero affascinante nella sua essenzialità, esiste un’affinità che lega le comunità montane di Friuli, Veneto e Trentino, tutte accomunate da un destino di migrazione stagionale verso la città di Venezia, crocevia di prodotti e riferimento di modelli non solo culturali. Sicuramente nel passato la percezione di unità nazionale non aveva la dimensione della condizione odierna ed era basata invece su affinità di abitudini e condizioni capaci di superare i confini politici stabiliti. Si può parlare di area montana, o area dolomitica, per scoprire che casunziei, casonziei, csanzöi, Krofin, cjarsons, cjalsons identificano tutti un primo piatto tipico e tradizionale sostanzioso e saporito (privo di carne) e che di tutti questi casi esistono varianti domestiche innumerevoli, che attestano un’appropriazione personalizzata di una pietanza, nella sua eccezionalità, comune.
I cjarsons contengono nel loro cuore tutta la disgiunta unità dei carnici e, come abbiamo ricordato, tutta la curiosa stratificazione di abitudini e disponibilità, che ha reso queste preparazioni isole specifiche di una più vasta cucina mitteleuropea e mediorientale, capace di radicarsi qui in modo del tutto autonomo, nonostante lo scorrere del tempo e degli avvenimenti. «La ricchezza del ripieno, chiamato pistùm o pastùm – ha scritto Silvia Marcolini – è composto da un numero spesso disparato di ingredienti (mele, pere, prugne, uvetta, marmellata, cioccolato, erbe odorose, canditi, pane grattugiato, biscotti tritati, cipolla, spinaci, limone, chiodi di garofano, cannella…) e questo spingeva a connotare l’eccezionalità di questa preparazione rispetto al tempo quotidiano. Nel passato infatti i cjarsons caratterizzavano le ricorrenze della festa (Natale, Pasqua, Ascensione, ma anche cresime o matrimoni) distinguendo anche da un punto di vista gustativo la qualità dello scorrere dei giorni. La preziosità degli ingredienti, così fortemente caratterizzanti, seppur nella loro natura di recupero, trovava una correlazione con la cura prestata alla preparazione dell’impasto, che costituiva il cuore e che necessitava e necessita ancora di un tempo di attesa (si lascia riposare una notte perché gli umori si compongano e si esaltino vicendevolmente) e la disponibilità di tempo non era frequente nelle preparazioni del vivere comune. I cjarsons carnici sono dunque pasta ripiena, ma è un qui rispetto a un altrove, perché nelle diverse valli della Carnia è declinata in un variegato numero di varianti, secondo ricette gelosamente custodite e singolarmente difese come prototipi di riferimento ed è indubbiamente riconoscibile come piatto tradizionale: la forma, la consistenza, il condimento e l’inusuale sapore che va dal dolciastro all’agrodolce fino al penetrante, sono infatti capaci di evocare immediatamente una corrispondenza territoriale ben definibile e circoscrivibile, come dire che ogni valle, quasi ogni casa, ha la sua tipica ricetta dei cjarsons. Ecco, sono una pasta ripiena in cui la sfoglia è ottenuta da farina e acqua calda (a volte mista a latte) o da acqua farina e uova, spesso con aggiunta di patate, composta in forma di mezzaluna più o meno definita e più o meno grande (il cerchio di base si otteneva da un bicchiere o da una tazza), i cui bordi risultano a volte pizzicati».
Già nella pasta si hanno delle varianti, farina ma anche patate, acqua ma anche latte, con o senza uova, per cui già nell’involucro dei cjarsons ci sono delle interessanti diversità da luogo a luogo, così come anche l’impasto del ripieno è estremamente variabile, anche se caratterizzato frequentemente dalla costante della ricotta, sostanzialmente è suddivisibile, come abbiamo visto, in due tipologie: impasto di erbe o impasto di frutta, entrambi presenti in un numero elevato di combinazioni. La cottura avviene in acqua calda e il condimento è dato da burro fuso e ricotta affumicata, con aggiunta anche di polvere di cannella e, in alcuni casi, di zucchero. Questa lunga storia del piatto carnico la concludiamo con la ricetta dei cjalsòns della Val Dal But, codificata dal grande Gianni Cosetti.
Ingredienti
Per la pasta: 800 g di patate, 200 g di farina 00, 1 uovo, 1 pizzico di sale e di pepe. Per il ripieno: 3 patate, 50 g di ricotta affumicata, 50 g di uva sultanina, 30 g di cacao, 30 g di zucchero, 30 g di marmellata, 2 savoiardi grattugiati, mezza pera grattugiata, mezza mela grattugiata, la buccia di 1 limone, 1 cucchiaino di cannella in polvere, sale, 1 ciuffo di prezzemolo, 1 ciuffo di mentuccia, 1 ciuffo di melissa, 1 ciuffo di maggiorana, 1 ciuffo di geranio profumato, 1 ciuffo di erba cipollina, 1 ciuffo di basilico, 1 ciuffo di finocchio. Per il condimento: 150 g di burro, 150 g di ricotta affumicata, 1 pizzico di cannella in polvere.
Preparazione
Per preparare la pasta lessate le patate, sbucciatele e passatele al setaccio, unite la farina e l’uovo, salate e pepate. Stendete la pasta su una spianatoia infarinata e ricavatene dei dischi dal diametro di 7 cm.
Per fare il ripieno lessate le patate, passatele al setaccio e aggiungete la ricotta affumicata grattugiata e tritate e soffriggete tutte le erbe aromatiche in un tegame con un fiocco di burro per cinque minuti e unitele al ripieno mescolando fino a ottenere un composto omogeneo detto pistum. Ora ponete un cucchiaino di ripieno al centro di ogni disco di pasta, ripiegate e chiudete bene premendo sui bordi.
Cuocete i cjalsons in acqua bollente salata finché verranno a galla, raccoglieteli con un mestolo forato, poneteli in una pirofila e conditeli con il burro fuso, la ricotta grattugiata e una spolverata di cannella in polvere.