Non solo K-popCosì la Corea del Sud vuole dominare anche il mondo dell’arte

Dopo la musica e il cinema, l’onda del paese asiatico si allarga in altri campi. Ma c’è un paradosso: questo fenomeno nato dalla politica di soft power voluta dal governo arriva a trasmettere al mondo un’immagine desolante del suo stile di vita

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AP Photo/Ahn Young-joon

A Londra ci sarà una mostra alla Saatchi Gallery di autori e celebrità coreani. Nel 2022 la rivista d’arte Frieze organizzerà una fiera a Seul. Sempre a Londra, il Victoria and Albert Museum si concentrerà sull’arte popolare della – indovinate un po’ – Corea del Sud. Per chi non ha la pazienza di aspettare, si può andare alla Tate Modern, il museo d’arte moderna più visitato al mondo, e vedere già esposti i lavori di Young In Hong, che insegna alla Bath Spa University, e di Anicka Yi, artista concettuale americana, per parlare dell’arte della diaspora. Ovviamente coreana.

E così dopo la musica, il cinema e le serie televisive, l’assalto culturale della Corea del Sud al resto del mondo si estende al campo dell’arte. Non è un caso che nella mostra alla Saatchi, organizzata dal businessman e collezionista David Ciclitira, saranno esposte le opere di autori che sono sia artisti che cantanti celebri. Ci saranno Ohnim, cioè Song Min-ho, e Kang Seung-yoon, entrambi della band di K-pop Winner. Insieme a loro anche Henry Lau, nato in Canada ed ex membro dei Super Junior-M. Come spiega Ciclitira al Guardian, si tratta di nomi che in patria «sono seguiti da migliaia di persone che fanno la coda alle loro mostre e si disputano le loro opere a suon di offerte». In Europa chi lo sa.

Il suo interesse per l’arte coreana (fino a poco tempo fa un campo semi-sconosciuto per gli occidentali) risale al 2005, quando insieme alla moglie è rimasto impressionato dalle opere che vedeva nelle gallerie di Seul. Ha cominciato a comprarle e collezionarle e, soprattutto, ha messo in piedi un piano per sostenere le arti del paese, chiamato Global Eye, organizzando mostre e incontri per promuovere la produzione asiatica, dal Vietnam fino all’Indonesia. Non solo: nel 2012 ha creato anche una società, la Live Company, per organizzare tour di concerti di K-pop, prima in Asi e poi in Europa. È un facilitatore del successo dell’hallyu, l’onda culturale coreana nata come meccanismo di soft power dello Stato e diventata, nel giro di un decennio, un fenomeno globale.

I fili conduttori delle opere selezionate sono vari, ma il disagio è onnipresente. La Corea del Sud è uno dei paesi con il più alto tasso di suicidi al mondo, una condizione dovuta al crollo del welfare familiare, che spinge molti anziani a uccidersi per non pesare sulla famiglia, e al debito studentesco, che determina la decisione di molti giovani a farla finita.

Le disuguaglianze sociali, al centro di quasi tutti i film e le serie tv prodotte in Corea, provocano rabbia e risentimento che, sostiene il filosofo Byung-Chul han, viene sfogato su di sé.

L’auto-aggressione è, secondo i curatori della mostra sulla Corea alla Saatchi Gallery del 2020, il motivo di depressioni e burnout che si esemplificano in una società in cui «il narcisismo può raggiungere livelli di fervore religiosi». Qualsiasi cosa questo voglia dire, non sembra dipingere un’immagine attraente della vita coreana. E proprio per questo, forse, la K-art, da ultima arrivata, potrebbe distruggere tutto ciò che il K-pop ha costruito finora.

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