È uscita il 17 settembre nel silenzio generale e nel giro di 10 giorni è diventata la serie più vista di Netflx in 90 Paesi. Se continua così, “Squid game”sarà presto la più vista di sempre della piattaforma. Un record globale, dal Bangladesh al Brasile, per una produzione coreana (Paese che ha fornito solo il 5% del totale degl spettatori) visibile soprattutto con l’utilizzo dei sottotitoli.
Se la formula della serie è chiara, il suo successo rimane un enigma. In “Squid Game” persone ai margini della società, povere o indebitate, scelgono di partecipare a una serie di giochi per bambini. In palio ci sono 45, 6 miliardi di won (quasi 33 milioni di euro): una ricchezza inaudita, ma chi perde viene eliminato fisicamente, il più delle volte ucciso a colpi di pistola da misteriosi soldati mascherati, con una divisa che ricorda “La casa di carta”, che si occupano delle organizzazioni e delle esecuzioni.
Ecco allora adulti disperati come il quarantenne Seong Gi-hun, sommerso dai debiti e intenzionato a riprendere l’affido della figlia dall’ex moglie, o Kang Sae-byeok, una ragazza fuggita dalla Corea del Nord cui servono i soldi per recuperare i familiari, rimasti al di là del confine, o ancora Cho Sang-woo, a capo di una società di investimenti ma ora ricercato dalla polizia per avere sottratto soldi ai clienti. Tutti che si cimentano in giochi tradizionali coreani – come appunto lo Squid Game, il gioco del calamaro – o universali come “Un due tre stella” (o “stai là”?) e tiro alla fune. Insieme a loro si incontrano personaggi di ogni genere: un vecchio delinquente, un anziano con una malattia terminale, un profugo dal Pakistan. Tutti disposti a morire – e a far morire – per soldi.
Per il suo creatore Hwang Dong-hyuk “Squid Game” è un’allegoria della società capitalista odierna, e va bene. Non si può negare che i riflessi delle disuguaglianze della Corea, portate alla luce anche in film come “Parasite” di Bong Joon-ho, emergano in modo prepotente. Ma è più probabile che la ragione del successo della serie funzioni sia – è triste dirlo – la sua violenza. È continua ed esibita, ma è al tempo stesso asettica. E dopo lo smarrimento iniziale, viene anche accettata da tutti i personaggi del gioco, diventa parte integrate della strategia di ciascuno.
Più ci si avvicina al premio, più i calcoli diventano cinici: nei giochi di squadra si preferiscono compagni più robusti, si escludono anziani e donne. Nelle ore di attesa si medita come far fuori (le regole non lo impediscono) avversari scomodi e ben piazzati. A ogni eliminazione, nell’enorme salvadanaio appeso al soffitto, cade la cifra (il valore) riferito a ciascun partecipante.
“Squid game” è un corso accelerato di spietatezza. Si impara che non ci si può fidare di nessuno: le gare sono studiate per spingere gli amici contro gli amici, i mariti contro le mogli, rompere le alleanze e uccidere le persone affini. Ma al tempo stesso, permette gesti di pietà. Alcuni trovano comunque modo e occasione per cercare scelte morali buone, offrire solidarietà, fare confessioni personali, trovare legami.
Ma perché lo fanno? Nell’universo morale dei giochi gli atti di umanità non hanno ragion d’essere. Proseguire la gara significa accettarlo, almeno in modo implicito.
A rendere ancora più desolante il quadro, più che la presenza di VIP, ricconi annoiati che osservano le gare e scommettono sui giocatori, è proprio il fatto che la violenza e la sua accettazione dipendono dai soldi. Film come “Hunger Games” (2012) o “Battle Royale” (2000), spesso richiamati per analogia, si fermano appena prima: lì si combatte per la sopravvivenza, qui per vincere una somma in denaro. E lo si fa per scelta.
È uno scarto che amplifica il disagio dei giocatori perché svuota di senso vittorie e avanzamenti. Lo spirito della serie è qui, in un grado zero etico, brutale sia per i protagonisti che per gli spettatori: essere vivo, ci si chiede, è meno importante che essere ricco? È con questa domanda che tutti sono chiamati a confrontarsi.