La Conferenza sul Futuro dell’Europa si avvicina al suo momento della verità: quello del confronto fra i cittadini “comuni” dei 27 Paesi membri e i rappresentanti politici eletti dell’Unione europea. Nel fine settimana si è svolto infatti il quarto dei Citizens’ Panel, da cui sono emersi gli ultimi 20 degli 80 delegati complessivi che rappresenteranno la cittadinanza alla sessione plenaria della Conferenza. Al Parlamento di Strasburgo era presente anche il deputato belga Guy Verhofstadt, uno dei presidenti del comitato della Conferenza, che ha spiegato perché questo momento potrebbe significare una svolta nella politica europea.
Un nuovo modo di fare politica
Secondo Verhofstadt, che ha risposto alle domande dei giornalisti mentre i cittadini discutevano nell’emiciclo, l’unicità della Conferenza sta nel coinvolgimento reale di persone comuni nel processo politico. Proprio per questo motivo, non è escluso che da evento straordinario, possa trasformarsi in un esercizio permanente, da ripetere con cadenza ciclica.
Certo i cittadini sono solo una parte, e nemmeno la più numerosa, dei componenti della sessione plenaria: insieme agli 80 delegati (tra cui 13 italiani), ci saranno infatti 108 parlamentari nazionali, 108 eurodeputati, tre commissari e 54 ministri o sottosegretari dei governi europei. Figure «intermedie» saranno 27 rappresentanti della cittadinanza scelti dai governi, 12 di autorità locali, 12 della società civile, 18 del Comitato economico e sociale europeo e 18 del Comitato europeo delle regioni.
Le conclusioni che la Conferenza elaborerà nella primavera del 2022 dunque saranno già “mediate” dalle istituzioni e resta da vedere quanto e quale spazio sarà dato agli ambasciatori dei cittadini per far valere le proprie istanze (nella prossima sessione plenaria, a quanto è dato sapere, alcuni di loro esporranno una presentazione in power point). Non solo: nonostante Commissione, Consiglio e Parlamento europeo si siano formalmente impegnati a tenere in considerazione quanto emergerà dall’esercizio democratico, potranno farlo comunque solo attraverso i procedimenti legislativi ordinari.
L’elemento di rottura, tuttavia, potrebbe essere rappresentato da una pressione pubblica sulle istituzioni, tale da portare a passi rilevanti, come la modifica dei Trattati costitutivi dell’Unione europea. «L’attuale assetto istituzionale dell’Ue consente a un solo Paese membro di bloccare qualunque cosa», spiega Verhofstadt. «Ma sarà difficile per un singolo Paese, così come per ciascuno degli organi comunitari, opporsi a una determinata riforma se i cittadini sono palesemente a favore».
Per l’esponente liberale, convinto sostenitore del federalismo europeo, le riforme sono necessarie per rendere l’Unione europea all’altezza di uno scacchiere globale dominato da Stati grandi, potenti e risoluti nelle proprie decisioni. La sua lista è lunga: comincia da un Parlamento che abbia voce in capitolo sul bilancio dell’Unione (al momento non può stabilirne le dimensioni, ma solo concordarne la ripartizione), da una Commissione più snella senza la necessità di rappresentare ogni Stato con un commissario e dall’abolizione della votazione all’unanimità nelle decisioni del Consiglio.
Questi elementi di governance potrebbero in effetti emergere dalla riflessione, magari non in maniera diretta, ma di riflesso: proponendo soluzioni per i problemi che sperimentano quotidianamente, può succedere che i cittadini percepiscano come un ostacolo gli attuali meccanismi comunitari. «Il successo della Conferenza non sarà dato dal numero dei contatti sulla piattaforma digitale, ma da quante idee della cittadinanza saranno accolte e implementate nelle policy dell’Unione europea», afferma Guy Verhofstadt. Un altro momento interessante della sessione plenaria saranno i cosiddetti caucus, cioè le riunioni delle famiglie politiche che si terranno alla vigilia della discussione nell’emiciclo. In questa occasione gli eurodeputati incontreranno parlamentari nazionali e ministri del loro stesso orientamento, dando vita a una discussione realmente transnazionale che dovrebbe, almeno nelle intenzioni, superare gli interessi nazionali.
Relazioni e migrazioni
Proprio le difficoltà decisionali dell’Unione sono state uno degli aspetti più discussi nell’ultimo incontro dei cittadini, dedicato ai due macrotemi «Ue nel mondo» e «migrazioni». Sia dagli interventi di diversi esperti in materia sia da quelli dei cittadini comuni è emersa la visione di una politica estera e migratoria poco efficace proprio perché non univoca.
In particolare Federiga Bindi, professoressa di Scienze Politiche alla Fondazione Jean Monnet, ha espresso la convinzione che la mancanza di un’azione comune freni l’Ue nei suoi rapporti con il resto del mondo. «Guardando alla storia dell’Unione europea, in ogni ambito in cui si è passati dall’unanimità alla maggioranza qualificata è stato possibile avanzare». Per l’accademica, esperta di relazioni transatlantiche, la presidenza di Donald Trump e quella di Joe Biden sono particolarmente disinteressate all’Europa: è quindi il momento giusto per l’Unione di costruire la propria politica estera uscendo dall’ombrello degli Stati Uniti.
Non sono mancati momenti di disaccordo fra gli speaker, su questo tema come su quello delle migrazioni. L’argomento ha suscitato interesse e, com’era prevedibile, ha fatto emergere visioni differenti anche fra i cittadini che hanno preso la parola. Critico verso la gestione dell’Ue è stato Cristian Vitrani, soccorritore del 118 triestino che ben conosce quanto accade sul tratto finale della cosiddetta «rotta balcanica» dei flussi migratori verso l’Ue, ovvero il confine fra Italia e Slovenia.
«Mi chiedo come mai non sia possibile istituire una polizia europea che possa applicare una sola legge in tutti i Paesi», dice a Linkiesta. Secondo la sua esperienza diretta, centinaia di cittadini stranieri, in prevalenza pakistani e afghani, attraversano la frontiera di nascosto in zone boschive, senza che gli agenti possano fermarli. Racconta di diversi interventi per assistere persone appena arrivate in Italia, a cui secondo le norme vigenti è ora obbligatorio fare un test anti-Covid19. Molti dei suoi concittadini, dice, vedono come una discriminazione questi tamponi gratuiti, quando loro sono costretti a pagare per eseguirli. «Io ovviamente penso come prima cosa alla salute di tutti, a prescindere dalla nazionalità. Però è indubbio che la gestione di queste persone costituisca un costo rilevante per la società».
«Dalla politica migratoria dell’Ue mi sembra che ci siano persone di serie A e persone di serie B», sostiene invece Francesco Indiveri, studente di giurisprudenza dell’Università di Napoli. Per lui sarebbe necessaria un’equa ripartizione degli sforzi dei Paesi membri nell’accoglienza di chi arriva nell’Unione e un approccio comune alla questione migratoria: un tema di cui si discute da tempo e che sembra lontano dal trovare una soluzione a livello comunitario. Chissà che risposte efficaci non possano arrivare proprio dai cittadini europei: servirà però anche che li ascoltino i loro rappresentanti nelle istituzioni.