Nic è un trapper romano in ascesa. Insieme all’amico Borneo forma la XXG, un duo che riceve sempre più successo. Si fa chiamare Lovely Boy, ha un seguito sui social, una fidanzata e una famiglia comprensiva. Nic (interpretato da Andrea Carpenzano) però ha anche un problema con la droga, sempre più grave. In poco tempo perde il controllo e la pulsione autodistruttiva lo porta in una comunità di recupero delle Dolomiti. Qui dovrà fare i conti con se stesso e con molte altre cose.
“Lovely Boy”, dal 4 ottobre su Sky, è il secondo film di Francesco Lettieri dopo “Ultras” (2020) e una lunga carriera come regista di videoclip, da lui sempre considerati «una palestra» per fare i film. Del resto anche qui tutto ruota intorno alla musica, la trap. «L’idea iniziale nasce dall’osservazione di ciò che stava accadendo in quegli anni, cioè intorno al 2017. È l’esplosione del fenomeno trap, sia dal punto di vista musicale che culturale». Nonostante i detrattori iniziali, la trap «si era imposta con il suo linguaggio e la sua estetica. Ha avuto una diffusione in ogni Paese, e in ogni Paese ha assunto una sua declinazione particolare». Parlare di trap significava, allora, «parlare della contemporaneità. E io volevo fare un film contemporaneo».
Non è stato facile. Prima di tutto perché, a livello musicale, Lettieri seguiva altri generi (è lui che girava i clip di Liberato) e altri musicisti. «Non ho mai frequentato tanto quel mondo. Ho incontrato alcuni personaggi, ma il film è stato il risultato di un lavoro di ricerca: mi sono fatto raccontare storie da chi è più addentro e ho seguito i social dei protagonisti principali». I simboli, le frasi, il gergo stesso dei trapper viene ricostruito fin nei dettagli. È lo spaccato di una “scena romana” fittizia ma verosimile, con il veterano (il Padella) che si è trasformato in producer e un gruppo di amici con estetica trasgressiva e idee molto chiare: fare cash.
In realtà il film «racconta una trap che non esiste già più». Quel particolare universo musicale, spiega il regista, negli ultimi quattro anni si è già evoluto ed è diventato mainstream, addirittura pop. «C’è chi ha iniziato in quegli anni e continua a seguire quello stile», ma i nuovi progetti «non sono più trap in senso stretto». Non si può parlare di sottocultura trap: «è un genere che nasce nelle trap house americane e quando è arrivato in Europa aveva già un aspetto mainstream». In Italia si era diversificato, tra Sfera Ebbasta e Ghali a Milano, «che cantavano il degrado e il disagio della periferia» e a Roma la Dark Polo Gang. «che invece venivano da quartieri bene della città».
Quel mondo è già tramontato: la trap non è più di moda, è finita nel calderone del pop «e forse il futuro è l’evoluzione nell’hyperpop di derivazione asiatica, più assurdo e surreale». Potrebbe essere la trap del 2022.
Intanto Nic è un protagonista di quegli anni, «anche se la musica che gli facciamo cantare è già molto più pop». Il suo problema è la droga, tanto più forte perché «non ha una ragione. Abbiamo voluto immaginare una persona con un problema esistenziale, senza obiettivi. A lui non interessano né il successo né i soldi. Il suo unico obiettivo è drogarsi» e lo fa con sostanze di tutti i tipi, dalla coca alle benzodiazepine al 2cb. Un nichilismo che vuole essere, anche questo, contemporaneo.
Rispetto al precedente “Ultras” il gruppo assume un nuovo valore. Per il tifoso in cerca di pace incarnava «l’amicizia», il punto di riferimento. In “Lovely Boy” è «l’origine dei mali». Nic deve «trovare se stesso», nonostante gli altri. Per farlo dovrà andare in comunità, nell’Alto Adige. È il film parallelo, in cui Lovely diventa Lonely. Anche a livello estetico, di colori, di ritmi di montaggio è un altra cosa.
«È l’immagine da cui è cominciata l’idea del film: una giovane star della trap, con i capelli rosa e i tatuaggi in faccia, che va nei boschi, raccoglie funghi, va a cavallo». Un personaggio che non c’entra niente nel contesto, un pesce fuor d’acqua con la comunità. È proprio quello che accade a Nic: nel centro di rehab è circondato da persone più anziane, con storie molto diverse e che hanno abusato di sostanze diverse. È un divario profondo. Proprio per questo stabilire un contatto con gli altri diventa un’impresa e acquista un senso nuovo.
«Per rappresentare quel mondo ho seguito i racconti che mi ha fatto Daniele, che nel film interpreta se stesso, e alla sua storia di dieci anni in comunità». Il suo personaggio è la chiave di volta per far scattare la trasformazione di Nic. Gli dà obiettivi («È quello il punto: fare cose, anche piccole») e lo fa aprire, aprendosi lui stesso a sua volta.
Lo stesso vale per Martino, un altro dei presenti. «Lavorare con attori professionisti e non professionisti ha cambiato il tono del film. Lo stesso Carpenzano, che ormai è più che professionista, è un attore-non-attore, nel senso che non ha fatto accademie per diventarlo». Mettere insieme storie reali, parlare di problemi veri, usare persone vere è un merito in più. «Alla fine anche Nic, riconoscendo anche negli altri la sua stessa disperazione, trova una sua strada».