Tutto cambia affinché nulla cambi vale anche per la televisione? Il vecchio e il nuovo si inseguono, i contenuti da uno schermo passano all’altro così come gli utenti, i nuovi formati cercano di attrarre le nuove generazioni: consumatori fugaci. Ma nonostante tutto la Tv resta il media più seguito.
Le statistiche dicono che la Tv è ancora il media preferito dagli italiani, il Covid-19 le ha dato lo scettro del media più seguito durante la pandemia, ed ecco perché il dibattito sulla sua trasformazione è quanto mai di attualità. Anche se secondo l’ultima analisi dell’Ufficio studi di Confindustria Radio Tv e Auditel emergono forti discontinuità, parziali riallineamenti e consolidamenti di nuove tendenze, prima su tutte l’aumento del consumo di contenuti televisivi digitali, su nuovi schermi.
Si legge nel rapporto: «Il 2020 ha rappresentato una discontinuità economica e sociale senza precedenti che nel nostro settore si è manifestata con un aumento del tempo di visione, un allargamento della platea televisiva e l’acquisizione di nuovi pubblici, in tutte le fasce della giornata e sui diversi generi. In altre parole, più gente a casa, maggiore tempo a disposizione, pratiche di consumo più evolute, anche da quei target più restii al cambiamento. Si tratta di una discontinuità totalmente inattesa che mostra un aumento nell’ultimo anno soprattutto nel tempo di visione, in netta controtendenza rispetto a un trend sostanzialmente stabile se non leggermente in declino. La televisione resta un mezzo centrale (oltre quattro ore giornaliere preCovid, mezz’ora in più nel 2020) per la comunicazione, anche commerciale, di massa». (Confindustria Radio Tv, “Ascolti TV 2020: nell’anno del Covid discontinuità e consolidamenti”, 25 marzo 2021).
La televisione, dunque, posta davanti al divano in soggiorno continua a governare le nostre ore di svago e informazione, tallonata dal resto degli schermi. Tuttavia, ciò che è cambiato e continuerà a cambiare sarà ciò che consumiamo attraverso quello schermo che in precedenza aveva la piena egemonia della televisione tradizionale: quella conosciuta come trasmissione lineare.
Ma ormai di lineare rimane poco perché oggi dominano le app: YouTube, Facebook, WhatsApp, Instagram, Twitter, Snapchat, Skype, Dropbox, Subway Surfers, LinkedIn, Uber e Google Maps, solo per citarne alcune, che coprono le attività del nostro quotidiano e hanno cambiato il modo di lavorare, interagire, comunicare, raccogliere e diffondere informazioni su persone, luoghi, eventi ecc.
Il report Digital 2021 di We are social dice che 41 milioni di persone in Italia erano attive sui social media a gennaio 2021: YouTube (85,3%), WhatsApp (85,2%), Facebook (80,4%), Instagram (67%), Facebook Messenger (55,9%), Twitter (32,8%), Skype (31,3%), LinkedIn (31,2%), Pinterest (28%), Telegram (25,4%), TikTok (23,9%), Twitch (14,6%), Snapchat (14,5%), WeChat (11,6%), Tumblr (11,5%), Reddit (10,2%). In ognuno di questi canali i video guadagnano sempre più spazio e la generazione Z e i millennials sono il target ambito.
La generazione Z, quella dopo i millennials, secondo il sito Statista si sposta verso nuovi spazi sociali come fonti di notizie mentre la generazione più giovane è molto più propensa ad usare Instagram, YouTube, Snapchat e, sì, TikTok, per ottenere le notizie. Secondo il Reuters Institute report, Instagram è destinato a superare Twitter come fonte di notizie principale tra i giovani consumatori, con il 75% dei giovani sotto i 25 anni che dicono di usare la piattaforma per le notizie e principalmente se in formato video. Infatti, le app preferite per le notizie sono per lo più piattaforme video-first. La generazione Z, dunque, è più propensa a informarsi tramite video (57%) rispetto al testo (43%).
Il punto è che oggi chiunque può produrre video e quindi Tv, o almeno chiunque può immaginare di competere con i grandi player: è il mondo digitale dove la diretta Tv è stata inghiottita da Internet, liquefatta da zero e uno, e si fruisce dovunque e con una miriade di gadget.
Ponte fra passato e futuro della tv: il punto di non ritorno
Il punto di non ritorno sembra essere l’estate del 1981 quando la caduta di un bambino in un pozzo cambia il modo di raccontare storie. Sono passati quaranta anni dai fatti di Vermicino, il primo racconto in diretta che ha segnato una svolta decisiva. Sette, settimanale del Corriere della Sera, lo ha ricordato con un servizio di copertina di Walter Veltroni, che alla vicenda del piccolo Alfredo Rampi ha dedicato il libro “L’inizio del buio”. La giornalista televisiva Stefania Carini gli ha dedicato un podcast: “Da Vermicino in poi”.
Secondo il Corriere della Sera: «La storia di questo ragazzino ingoiato da un tombino ha cambiato per sempre il nostro modo di raccontare le storie e la diretta, che andò avanti per giorni fino alla sua morte, ebbe uno straordinario impatto sugli italiani, sul loro rapporto con i media e sui media stessi influenzando la percezione collettiva della realtà e della Storia».
Il racconto come la tragedia ha inizio all’ora di pranzo del 12 giugno 1981, sono diciotto lunghe ore di una storia che finisce male, quel bambino non si è salvato. «Era la prima estrema forma di quella informazione continua che conosciamo oggi», spiega Stefania Carini nelle pagine del Corriere della Sera: «Vermicino mostra soprattutto il futuro dei media».
Umberto Eco sulla vicenda si espresse così: «Vermicino è stato l’ultimo atto di televisione vera, quella che va in un luogo e riprende in diretta quello che sta accadendo, ma è stato anche il primo atto di una televisione che inizia a interferire con la realtà. Non c’è dubbio che abbia influito sull’andamento dei fatti. Se non ci fosse stata forse non sarebbe arrivato lo speleologo magro calatosi nel pozzo. Ma c’è anche da considerare che probabilmente senza quella confusione di folla i soccorsi sarebbero stati più efficaci. Quella vicenda è diventata un fatto teatrale, dove il massimo di verità atroce ha cominciato a far intravedere le possibilità del massimo di falsificazione».
Quelli erano i tempi di “Se un albero cade e lo dice la televisione tutti ci credono”, parole di Alvin Toffler, futurista autore della “Terza Ondata” (Armando Editore, Roma 2021), libro che negli anni Ottanta anticipava i cambiamenti dei media.
Ma oggi fra postverità, verità alternative e fake news sembra non essere più determinante l’oggetto televisione, ma determinante diviene ciò che consumiamo attraverso i tanti schermi.
Schermologia
La proliferazione di schermi ha ispirato il nostro lavoro sulla “schermologia”, scienza dei rapporti mente-schermo-cultura. Più della carta, lo schermo diviene il punto d’ingresso privilegiato per la mente che spinta dall’interattività si esternalizza, cosicché i mondi si combinano e si estendono. Già nel 1995, pensando ai cambiamenti psicologici, in “La pelle della cultura” si legge: «Lo schermo video sostituisce la mente quando si tratta di elaborare immagini e informazioni».
Se il rapporto unidirezionale e frontale con lo schermo televisivo ha inaugurato la cultura di massa, cosa viene adesso? La trasformazione digitale, anche a causa del confinamento, ha accelerato la metamorfosi dello schermo televisivo.
Ormai, la Tv si è frantumata in miriadi di schermi, di produttori e utilizzatori indipendenti. Già nel 2015 la varietà degli schermi era stupefacente: tablet, smartphone, Pc tattile, schermo piatto, 3DTv, Dvr, VR ecc. Nel 2021 il tablet (iPad) si combina con lo smartphone per diventare phablet e la Tv si guarda sullo smartwatch. Nello schermo curvo, i pixel diventano trixel per dare un effetto 3D più penetrante. Poi il trend Oculus Rift, tecnologia che migliora la definizione dell’immagine e fa incontrare direttamente l’occhio del mondo con quello dell’utente.
E poi? Poi, possiamo immaginare un futuro strepitoso con la paper Tv che promette Roberto Saracco (senior member di Ieee): «Più recentemente c’è il crescente uso di e-paper (non ancora adeguato ai video per la sua lunga latenza) e per quanto riguarda il decennio a venire la carta, usata come schermo grazie alla tecnologia Amoled, supporterà il video. Ecco che la possibilità di trasformare in uno schermo potenziale qualsiasi superficie aumenta ulteriormente la possibilità di fruire la televisione. Schermi di tipo Ned (nano emissive display) che si possono creare direttamente, tramite deposizione, su molte superfici insieme con l’elettronica ed il cablaggio trasparente animeranno lo schermo di vetro, aprendo nuove possibilità, in particolare nella realtà aumentata». La metamorfosi della Tv tradizionale è già in corso, come quella del pubblico, e i contenuti sono parte di essa.
La televisione può diventare adulta e confrontarsi con la realtà?
Noi dell’Osservatorio TuttiMedia approfondiamo l’impatto della trasformazione digitale nei media, nello specifico per quanto riguarda il medium “televisivo” riflettiamo sulla “Tv oltre la Tv”. L’onda del rinnovamento arriva e bisogna essere preparati.
Questo libro, che racconta non l’evoluzione ma le tappe del cambiamento, aiuta a intravedere una possibile trasformazione costruttiva. Per McLuhan il nuovo media contiene il vecchio e lo travalica, ma il successo non è garantito.
Il nostro Osservatorio TuttiMedia sostiene le pratiche della società digitale inclusiva così come indicato dal fondatore Giovanni Giovannini, presidente storico della Federazione italiana editori giornali, dell’Ansa e di tante case editrici negli anni Novanta, che diceva: «Io devo rimanere qui perché tra poco ci sarà una rivoluzione grandissima e voglio parteciparvi perché tutti i media sono fratelli o almeno fratellastri tra loro: per l’osservatore non legato da particolari interessi quella tra informatica, telecomunicazioni ed entertainment, più che come una sfida va vista come un’opportunità per tutti e tre i settori, e tout court per tutto il nuovo mondo della comunicazione. In questa ottica non ha senso alzare steccati tra settore e settore, non ha senso farsi la guerra ad oltranza come per un po’ è stato fatto ciecamente – per esempio tra carta stampata e televisione. Meglio imparare a conoscere meglio, alla luce delle nuove tecnologie collaborative, le possibili interrelazioni tra media, canali, mezzi trasmissivi e prodotti finali…, sto creando un Osservatorio TuttiMedia partendo dal mondo della carta stampata ma ovviamente aperto a tutto il mondo della comunicazione – è indubbio che occorre un maggior sforzo comune per rispondere a una sempre più assillante esigenza conoscitiva per scrutare meglio gli orizzonti della società dell’informazione del terzo millennio».
Franco Siddi, in qualità di presidente di TuttiMedia ha recentemente sottolineato che guardare al futuro non significa cancellare il passato e che salvaguardare il bene pubblico dell’informazione è soprattutto compito di Rai, Bbc ecc. «Oggi ci troviamo di fronte all’algoritmo – ha scritto nelle pagine di Media Duemila – il tema dell’opinione pubblica si pone in termini diversi. I media hanno sempre avuto un ruolo importante, e continueranno ad averlo se servono solo ed esclusivamente la verità. Grazie ai media si è formata l’opinione pubblica, praticamente scomparsa adesso, e che deve diventare di nuovo importante per la nostra società. Solo da questo punto, dalla riappropriazione del proprio ruolo, può ripartire il giornalismo, anche perché c’è sempre bisogno di giornalisti e di informazione».
Salvare il bene pubblico dell’informazione vale ieri come oggi, il punto è che abbiamo bisogno di una nuova centralità della televisione, come ha ben detto Alberto Marinelli (prorettore alla Sapienza) per sottolineare le profonde trasformazioni nel modo di guardare la televisione: «Oggi parliamo di un’esperienza che supera i modelli e i formati della Tv tradizionale e apre a una straordinaria molteplicità di pratiche, scenari di consumo, schermi, interazioni sui social media».
Oggi la moltiplicazione delle modalità di fruizione in timeshifting e placeshifting, ha prodotto un complessivo incremento del tempo dedicato alla visione e un’esperienza di consumo fortemente personalizzata (personcasting). Cosa c’è dopo?
Il protagonismo delle audience connesse
«Non è più una realtà di nicchia ma è un fenomeno trasversale rispetto alle generazioni: se è vero che sono generazione Z e millennials (quelle più giovani) a caratterizzarsi per la maggiore innovatività, tutti i pubblici mostrano comunque comportamenti esplorativi sia rispetto all’ambiente tecnologico in cui si accede a contenuti televisivi sia rispetto alle pratiche social – ha spiegato Alberto Marinelli in occasione di un seminario TuttiMedia – anche le forme tradizionali di visione (divano + schermo Tv) si lasciano contaminare dall’innovazione tecnologica e propongono una risemantizzazione del più classico dei rituali di consumo; ne emerge una rinnovata idea di comodità, fatta di schermi Hd e contenuti on demand che trasformano audience una volta dominate dal flusso televisivo in consumatori selettivi e orientati alla ricerca dei contenuti preferiti».
L’audience vuole contenuti sempre disponibili, modellati rispetto ai suoi diversi bisogni, svincolati dal palinsesto, per passare da uno schermo all’altro, da un contesto all’altro, da un tempo di consumo a un altro. I contenuti oggi circolano e si condividono, liberi da vincoli e barriere: è l’èra del fluid viewing.
L’interattività è il vero cambiamento
Pensando alla virtualizzazione del mondo che è iniziata già trenta anni fa, Randall Walser, manager del Cyberspace project di Autodesk e creatore dell’espressione “spacemaking”, sosteneva: «Mentre il film è usato per mostrare una realtà al pubblico, il cyberspazio è usato per dare un corpo virtuale, e un ruolo, a tutti gli spettatori. La stampa e la radio raccontano; il palcoscenico e il film mostrano; il cyberspazio incarna… Mentre il drammaturgo e il regista cercano entrambi di comunicare l’idea di un’esperienza, lo spacemaker cerca di comunicare l’esperienza stessa. Un costruttore spaziale allestisce un mondo in cui il pubblico può agire direttamente, e non solo perché il pubblico possa immaginare di vivere una realtà interessante, ma perché possa viverla direttamente. Così l’operatore spaziale non può mai sperare di comunicare una particolare realtà, ma solo di creare opportunità per far emergere certi tipi di realtà. Il regista dice: “Guarda, ti faccio vedere”. L’operatore spaziale dice: “Ecco, ti aiuto a scoprire”».
Ipertesto, interattività e connettività diventano le parole chiave perché dobbiamo ridefinire l’utente che da passivo diventa attivo e richiede un contenuto adeguato alla sua nuova forma. Questa potrebbe essere la chiave principale del prossimo sviluppo perché questo tipo di coinvolgimento porta un’emozione nuova, posiziona l’utente al centro dell’opera invece di lasciarlo alla periferia. L’interattività è centrale.
La narrativa ipertestuale dà un potere in più all’utente, stimola anche la sua curiosità e di fatto lo fa divenire coautore. Secondo David Rokeby, artista di nuovi media canadese, invece di creare contenuti statici di musica o pittura, nell’èra digitale diviene fondamentale costruire nuovi strumenti e condividere l’opera con l’utente.
Questo potere non è limitato all’intrattenimento e infatti provoca problemi nella cultura della postverità, perché la possibilità di pubblicare immediatamente è la tentazione irresistibile di prendere il controllo della parola. Questo è il nucleo, o meglio, il centro della criticità della Rete: da una parte dà la spinta ai prodotti commerciali che accelerano l’economia dell’informazione, dall’altra provoca la conseguenza imprevista della crisi epistemologica dovuta alla cacofonia derivante dalle tante voci che si alzano su soggetti diversi.
Decoesione sociale
Poco tempo fa abbiamo assistito alla presentazione di una collega canadese, Regina Rini, ad Ars Electronica, che ci ha mostrato la differenza fondamentale tra una notizia “positiva” e una notizia “negativa” sulla Rete. Una notizia positiva raggiunge un piccolo pubblico. Una notizia negativa è letta da migliaia di persone e scatta un meccanismo virale. Le fake news sono sempre esistite ma oggi sono velocissime, istantanee, i lettori non hanno modo di difendersi e riflettere. Chi potrebbe riflettere non ha più un contesto avendo messo la propria memoria nel telefonino. Molte volte c’è addirittura l’indifferenza alla verità.
La verità, la verifica, interessa o non interessa? Questo è un nuovo angolo di riflessione perché la televisione del futuro potrebbe dover ritornare sulla qualità del contenuto e indurre a nuovi livelli di riflessione che i giovani stanno perdendo.
Non c’è niente di più condivisibile delle emozioni. È per questo che i social media hanno esteso il mondo della comunicazione come un sistema limbico sociale creando gruppi di interesse a sostegno di un messaggio, di una persona o di un programma. Oggi sono la fonte principale degli audit, in particolare Audiweb con la sua misurazione specifica. Ma la dittatura degli audit può impedire la necessaria metamorfosi della Tv.
Public mind
Trenta anni fa Bill Moyers, un grande giornalista e regista della televisione americana, aveva fatto una serie di sei puntate chiamata “Public Mind”. In quella serie Moyers analizzava con grande precisione i vari modi in cui la televisione dell’epoca produceva una coesione sociale dando a tutti lo stesso menù, la stessa quantità di notizie e lo stesso tipo di pubblicità. Era un tempo in cui dominava la cosiddetta “maggioranza silenziosa”, (silent majority come diceva Richard Nixon).
Quando si pensa a questo termine viene da chiederci: c’è ancora una maggioranza? Ed è ancora silenziosa? Assolutamente no. Siamo nel tempo della minoranza che urla.
Tutto è cominciato con l’atomizzazione della televisione, quando la quantità di canali si moltiplicava. La cultura della Tv è, infatti, finita alla fine degli anni Settanta, quando i computer hanno cominciato a erodere l’indottrinamento di massa fornendo opportunità di parlare allo schermo e poi di penetrarlo attraverso il nostro gemello digitale, figura retorica emergente dei nostri tempi che rappresenta l’altro me, quello creato attraverso i tracciamenti e i big data.
Il gemello digitale è il nostro sé interno che va all’esterno, è il contesto in cui lo spazio virtuale, che non è semplicemente realtà virtuale ma l’intero mondo digitale che noi stessi occupiamo, dal momento in cui pigiamo il cursore sullo schermo e il nostro essere girovaga fra tre spazi. E volenti o nolenti ci siamo dentro.
Siamo già dentro la televisione? Se sì sarà il nostro gemello digitale a scegliere per noi, e se da un lato gli utenti saranno sollevati dal problema della scelta, dall’altro saranno rinchiusi in canali verticalizzati che propongono titoli a tema fisso.
La tecnologia avanza, è certo, ma la creatività ci salverà? Nessuno può saperlo. Intanto anche se come dice Roberto Saracco in un post del 19 giugno 2021: «Viviamo tutti su un piccola biglia blu, la terra vista dalla Luna. Ma, ingrandendo la visione, ci accorgiamo che le culture sono molto diverse, almeno così sembra, per il valore percepito della privacy, vista come non negoziabile in Europa, monetizzabile negli Usa, praticamente inaudita in Cina e in altri Paesi dell’Estremo Oriente (Singapore compresa). Canon information technology, una consociata di Canon in Cina, ha installato un sistema di riconoscimento delle immagini basato sull’intelligenza artificiale per consentire l’accesso al proprio ufficio. Non è una novità, diverse aziende in tutto il mondo e molti aeroporti utilizzano il riconoscimento facciale per consentire l’ingresso. La novità è che gli uffici Canon sono accessibili solo ai volti sorridenti. Se sei scontroso non sei ammesso. Ciò è possibile attraverso la tecnologia che permette il riconoscimento delle emozioni, un nuovo campo dell’intelligenza artificiale che va oltre un sorriso falso, guardando diversi segni rivelatori subliminali del tuo umore. Quindi fingere felicità non funzionerà: quel giorno non ti sarà permesso l’accesso in ufficio».
Chissà se un giorno accendendo la Tv non saremo ammessi perché il nostro stato d’animo non è giudicato idoneo al programma scelto…
La conclusione è un inizio perché, sotto sotto, speriamo che Mark Starowicz, giornalista e produttore canadese che in “The Gutenberg Revenge of Television” descrive la fine della frammentazione irreversibile del narrowcasting televisivo personalizzato, possa avere ragione e che quelle espressioni creative che trovano per ora ospitalità in YouTube – o più recentemente in Facebook – e si caratterizzano per la forma breve, l’inquadratura e il montaggio ottimizzati per la fruizione da piccolo schermo e, soprattutto, per l’esplorazione di formati del tutto innovativi (web series, vlog), restino fuori dalle produzioni delle televisioni che hanno il compito di educare, narrare per permettere, anche, la formazione di un’opinione pubblica.
In ogni caso isolando i comportamenti patologici o di dipendenza, che vanno trattati esattamente come accade per altre forme di dipendenza (alcol, sesso, droga ecc.), nella normalità dei casi, ogni nuova opportunità tecnologica e di accesso ai contenuti ridetermina strategie e modalità di assegnazione dei tempi (mai infiniti) e delle occasioni di consumo; lascia emergere nuove competenze (in questo caso il multitasking, cioè l’attenzione dislocata e alternata rispetto a diversi schermi); trova nuovi punti di equilibrio e di riassegnazione delle priorità.
Sicuramente, quindi, la televisione che sta nascendo sarà molto diversa da quella del passato; forse non la chiameremo più nemmeno televisione. E sicuramente i broadcaster che la producono dovranno fare uno sforzo per rimanere all’interno del perimetro della nuova centralità televisiva, nella quale il protagonismo e la capacità innovativa delle audience romperanno gli schemi consolidati da decenni.
Postfazione di Derrick de Kerckhove e Maria Pia Rossignaud a “Storytelling digitale. La produzione audiovisiva 4.0”, a cura di Simone Arcagni, Luiss University Press, 2021, pagine 166, euro 20