Conosco Giampaolo Colletti perché leggo i suoi articoli nel Sole 24 Ore. La sua intervista a Seth Godin è stata per me illuminante. E quando scrive di marca non mi perdo un suo pezzo. Di digitale e di marca ho chiacchierato con Giampaolo in questa intervista.
Che cos’è per te una marca?
La marca è un insieme di valori, di visione, di persone. È sempre di più un posizionamento che dall’interno si sposta verso l’esterno. La marca ha ribaltato i concetti dei primi anni duemila, quando Naomi Klein pubblicò il libro No Logo. Oggi, di fatto, viviamo nell’epoca del Sì Logo e del Sì marca perché il brand inizia ad avere una propria identità, una propria simbologia, una propria visione. Inizia a mettere in campo una propria modalità di interazione con comunità di consumatori sempre più verticali, connesse, disorientate di fronte agli stimoli che ricevono. Non parlo solo delle fasce più giovani, ma anche di quelle più mature del pubblico. Oggi, una marca è un modo di posizionarsi nella contemporaneità. Molto di più che in passato, la marca oggi rappresenta il suo contemporaneo: la capacità di vivere il proprio tempo, il proprio presente.
Una marca di successo si costruisce nel tempo e si distrugge in poco tempo. Si costruisce attraverso le proprie persone, i propri modelli, i propri riferimenti. Oggi, una marca ha successo se è multistakeholder: assume un’impostazione inclusiva, plurale, aperta a collaboratori, fornitori, clienti, comunità, istituzioni. Ma in questo modo si apre anche alle dinamiche digitali.
Come fa una marca a radicarsi nella mente del consumatore?
In passato la marca sfruttava la leva pubblicitaria per imporsi sul mercato: aveva un grande budget per un grande pubblico. Riusciva a conquistare pubblici molto meno profilati e molto più indistinti che usavano mezzi di comunicazione convenzionali. Oggi, la marca per imporsi ha molte più cartucce da sparare, molte più disponibilità e anche la possibilità di scegliere percorsi inediti o poco battuti.
Oggi le grandi marche possono concorrere insieme alle piccole sulla specificità, sull’elemento distintivo che Seth Godin chiama il valore wow della marca.
Di Seth Godin ricordo: «Brand, tutti giù dalla giostra dei social». Noi lavoriamo a Castelfranco Veneto, in una regione dove il tessuto aziendale è composto soprattutto di piccole e medie imprese. Noto però che il mondo digitale ha mescolato le carte. Vedo troppo spesso persone che affrontano il marketing in modo toppo semplicistico. I social offrono grandi opportunità, ma la sensazione è che vengano fatte sempre meno analisi e meno verifiche. Per questo mi chiedo: «I social stanno davvero aiutando la marca? Stiamo davvero dando il valore corretto alle marche o stiamo creando più confusione?». Quanto, secondo te, le marche sono cambiate con l’arrivo dei social?
I social e il digitale hanno sparigliato le carte. Hanno reso accessibili confini fino a poco tempo fa lontani, ma lo hanno fatto con una semplificazione illusoria della narrazione. Oggi, chi riesce a imporsi nel tempo e con risultati ha un metodo, applica alla fine un processo, svolge prima uno studio. Il digitale è fatto di analisi e preparazione, non di improvvisazione. E in un marketing di tendenza come il real time, la semplificazione può esporre la marca a dei rischi. C’è, quindi, la consapevolezza che un brand non debba vivere solo nei social: il rischio è di cedere il proprio valore alle piattaforme e diventare vittime dei loro algoritmi. Perché quando un’azienda fa investimenti esponenziali in advertising sui social e sul digitale, cerca di intercettare un algoritmo che cambia a seconda degli investimenti che fa. L’alternativa è iniziare narrazioni su piattaforme proprie, raccontando la marca dal sito web dell’azienda o creando attività di marketing onlife, con eventi offline che poi si riflettono online. Gli strumenti per raccontare la marca sono molti, e non dobbiamo cedere alla dittatura degli algoritmi. È questo il senso dell’affermazione di Godin.
Pensi che questa dittatura possa diventare un problema? Che ci sarà una crescente omologazione nella costruzione dell’identità di marca?
Eh, sì. L’omologazione oggi è forte e le dinamiche modaiole lasciano spazio a poca creatività. Le marche che riescono a innovare di più hanno caratteristiche precise: puntano a nicchie di prodotto o nicchie di servizio, sanno estrarre un contenuto differente, si relazionano verso il pubblico con la necessaria empatia. In un mondo che ci propone bot e machine learning come soluzione, la marca che si differenzia percorre altre strade, come lo spirito aloha, lo spirito relazionale apparso qualche anno fa sul New York Times. Del resto, anche l’Harvard Business Review l’anno scorso era uscito con un pezzo dal titolo: «Viviamo nell’era conversazionale dei brand».
Come si sono evolute le marche negli ultimi vent’anni?
Negli ultimi vent’anni le marche hanno avuto un’evoluzione di senso. Hanno capito l’aspetto strategico rilevante di essere marca, molto più che in passato. Non giocano più in difesa, ma vanno all’attacco. È il fenomeno del brand activism, l’attivismo delle marche che si lega a un altro tema molto contemporaneo: l’evoluzione del senso di responsabilità della marca per il territorio e la comunità. Stiamo passando, come ha detto il professor Giampaolo Azzoni, dalla Csr – Corporate Social Responsibiliy – alla Cpr, Corporate Political Responsibility. La marca si evolve in azioni politiche, verso scelte divisive su temi come l’ambiente, la comunità, le persone, il dibattito sociale. Così il brand assume il ruolo di attore di senso del cambiamento all’interno della società contemporanea.
Quali sono le marche che meglio hanno saputo evolversi negli ultimi anni?
Ti rispondo Patagonia per la sua capacità di innovare la propria narrazione. Il brand americano ha un posizionamento molto forte sul tema ambientale e politico. È la prima marca mondiale che ha deciso di schierarsi apertamente con un endorsement politico verso due candidati democratici per il senato americano. Le marche sono sempre state molto neutrali rispetto al mondo della politica, più nell’Europa mediterranea, meno nell’area anglosassone. Del resto, prendere posizione significa non scendere a compromessi: una scelta coraggiosa per un brand.
Ha già previsto quale sarà l’innovazione che farà cambiare le marche nei prossimi anni?
Penso che l’innovazione sarà legata molto a servizi sempre più di engagement, e che la marca diventerà sempre più uno spazio di intrattenimento. Ogni marca nel futuro diventerà una Netflix del proprio settore. È così che intercetterà il proprio pubblico. La gente ha voglia di divertirsi, non di annoiarsi.
da “Smarcati. Viaggio al confine della marca”, di Federico Frasson, Egea editore, pagine 320, euro 39