Mentre mette in conto elezioni anticipate in primavera, il Partito democratico è sicuro di vincere le suppletive di Roma Centro, il collegio lasciato vacante da Roberto Gualtieri. È un seggio “nostro”, ripetono gli uomini di Enrico Letta e dunque il candidato sarà un democratico doc, non è il caso di tentare operazioni di allargamento del campo – non sia mai – con esponenti non iscritti al partito del Nazareno.
Il favorito è Enrico Gasbarra, non esattamente un uomo nuovo, già giovane democristiano, popolare, margheritino, infine dem, amico di Goffredo Bettini, poi vicesindaco di Walter Veltroni eccetera eccetera, già deputato per due legislature e poi europarlamentare.
Al momento non sembrano esserci altri nomi, dato che Nicola Zingaretti è impegnatissimo nella nuova fase della lotta al Covid come presidente della Regione Lazio. È la seconda volta su due che a Roma il Partito democratico avrebbe potuto avere una candidatura da “campo largo” ma, prima a Primavalle e ora a Roma Centro, evidentemente c’è spazio solo per l’apparato.
Sarà una combinazione ma questa bulimia dem si accompagna a un ritrovato entusiasmo, in parte giustificato. Basta leggere l’articolo molto partecipato di Repubblica di ieri: «Si è ripreso tutto, Enrico Letta»: già l’incipit è forte. In particolare, Letta «ha stabilito una gerarchia nella coalizione di centrosinistra, a lungo immaginata a trazione Cinquestelle (ma questo nemmeno Zingaretti e Bettini lo dicevano, ndr) e adesso invece in capo al Pd, motore di quel campo largo che è la strada giusta, dice il segretario». Che poi questo campo largo non si scorga non è affare dell’articolista di Repubblica, tanto «lo dice il segretario».
Ma è vera un’altra cosa, ben presente nell’articolo, e cioè che Letta ha riportato l’ordine in un partito che fino a poco tempo fa era veramente da ricoverare in un istituto svizzero tipo “Montagna incantata”, tante erano le divisioni interne, i continui riposizionamenti, le decine di trappole degli uni contro gli altri. Adesso vige la pax lettiana, un regno dove c’è posto per tutti: cioè – intendiamoci – per tutti quelli che hanno abiurato il loro passato renziano e che in forza del loro professionismo politico godono di un’amnistia larga che gli consente di guardare al futuro con relativa tranquillità.
Basta che non si puzzi di renzismo, nel Partito democratico si può fare qualunque cosa: essere a favore dei grillini nel gruppo socialista europeo o no, essere proporzionalisti o no, essere per la marijuana e l’eutanasia o no, essere per Draghi al Quirinale o no, essere per elezioni anticipate o no. Tanto ci penserà Letta.
E così è accaduto che un ex iper-renziano (per la verità anche ex tutto), nonché bravo sindaco di Pesaro, Matteo Ricci, abbia coniato un inedito e gentile appellativo per il segretario del partito: «Coach». Coach Letta, come il “coach Lasso” della sete televisiva Apple.
Il fatto è accaduto durante l’assemblea dei sindaci democratici e progressisti (quasi tutti del Partito democratico) dove “coach Letta” ha volentieri assunto il ruolo tranquillizzando quei primi cittadini che anelano ad essere eletti in un Parlamento peraltro falcidiato da un referendum appoggiato proprio da Letta: svolgerà il «compito sgradevole» di fare le sostituzioni (le nuove liste, cioè) ma si sappia che «posso togliere anche Ronaldo», i più bravi. Non disperate, ci sarà posto anche per voi. L’importante è andare avanti così, nel silenzio delle correnti. Le quali in effetti non hanno niente da dire, almeno finché le cose vanno relativamente bene.
Stefano Bonaccini è ormai fuori da ogni contesa, se mai vi è entrato, la stessa Base riformista (dove ci sono ex renziani convertiti ma anche no) non si capisce più quale funzione svolga, le altre simil-correnti (Serracchiani, Ascani, Delrio, Areadem, De Micheli, la stessa area Bettini) sparite o vacue, mentre la sinistra ha le redini del partito e l’ottima postazione di governo col ministero del Lavoro ove Andrea Orlando ogni tanto fa salire a bordo qualcuno dei suoi.
La squadra gioca in surplace, secondo lo stile di “coach Letta”, uno che litiga poco, evita le buche più dure, è bravissimo nell’addormentare il gioco. Almeno prima delle inevitabili buriane che prima o poi in politica fatalmente arrivano. Sarà allora che si vedrà se il “coach” regge.