Diverso dagli altriLa grandezza di Roger Federer, il campione gentile

Soave nei movimenti, cortese nei rapporti fuori dal campo, maturo e con i piedi per terra. Il ritratto scritto da Christopher Clarey racconta il mondo intorno al tennista, la sua visione delle cose e lo stile di vita. «Il motivo per cui è interessante è perché è interessato», aveva detto una volta il suo ex allenatore, Paul Annacone

AP Photo/Kirsty Wigglesworth

La mezzanotte era vicina, e anche Roger Federer.

Noi giornalisti passiamo molto tempo ad aspettare; stavolta ero in un’auto con autista in un sobborgo di Buenos Aires con la radio che trasmetteva “All by Myself”, la lagnosa ballad di Eric Carmen. Un sottofondo azzeccato per me, seduto da solo sul sedile posteriore della macchina in compagnia soltanto dei miei appunti e delle mie riflessioni pre-intervista, ma non per Federer, che non sembra quasi mai da solo, e di certo non lo era in quella occasione.

Era la metà di dicembre del 2012, gli ultimi giorni dell’anno della sua rinascita, in cui Federer era tornato numero 1 al mondo grazie alla vittoria a Wimbledon, il suo primo Slam dopo oltre due anni. Aveva lasciato la moglie Mirka e le due gemelle in Svizzera ed era volato per la prima volta in questa parte del Sudamerica per giocare una serie di match di esibizione che erano andati tutto esaurito nel giro di pochi minuti.

Era lì per i soldi – due milioni di dollari a incontro; sei partite gli avrebbero fruttato più degli 8,5 milioni di dollari che aveva guadagnato in montepremi in tutto l’anno – ma anche per i ricordi, per la possibilità di entrare in contatto con un pubblico nuovo, in un posto nuovo, nonostante gli ultimi undici mesi fossero stati davvero impegnativi, sia dal punto di vista fisico che mentale.

Altri campioni altrettanto ricchi avrebbero rinunciato più che volentieri a quel viaggio e ai postumi del jet lag. Ma Federer e il suo agente, Tony Godsick, pensavano in grande, e avevano immaginato quanti mercati ed emozioni Federer doveva ancora sfruttare. Il tour, che lo aveva portato prima in Brasile e poi in Argentina, aveva superato ogni loro aspettativa, e la conferma erano stati i ventimila tifosi che avevano riempito l’improvvisato stadio di Tigre per vederlo. Un pubblico record per un incontro di tennis in Argentina, patria orgogliosa di icone quali Guillermo Vilas, Gabriela Sabatini e Juan Martín del Potro, che quella sera era stato l’avversario di Federer e in un certo senso anche il suo complemento.

«Per Juan Martín è stata un’esperienza fantastica, ma anche un po’ strana», dichiarò Franco Davín, all’epoca coach di del Potro. «L’Argentina è casa sua, ma fanno tutti il tifo per Federer».

Ed è così in moltissimi Paesi: Federer gioca in casa quasi dappertutto. Era ormai mezzanotte, ma diverse centinaia di tifosi lo attendevano fuori dallo stadio: in piedi su delle scatole per vedere meglio, i bambini sulle spalle dei genitori, i flash delle fotocamere digitali che scattavano in continuazione nel tentativo di catturare il momento.

Attendevano tutti in silenzio, poi, quando Federer uscì da una porta laterale e andò verso l’auto, muovendosi leggero anche dopo il match con del Potro, che aveva vinto al terzo set, si scatenò il delirio.

«Ciao! Ciao! Ciao!» ripeté ritmicamente salutando i tifosi in tono informale. Poi aprì la portiera della macchina.

«Come va?» mi chiese nello stesso tono, chiudendosi la portiera alle spalle.

Ho seguito Federer nei sei continenti; l’ho intervistato più di venti volte nel corso di vent’anni per il New York Times e l’International Herald Tribune; ci siamo visti ovunque: da un aereo privato ai campi di Wimbledon, da Times Square ai ristoranti sulle Alpi svizzere, fino a una suite dell’Hôtel de Crillon di Parigi con una vista mozzafiato su Place de la Concorde mentre la sua futura moglie, Mirka Vavrinec, si provava degli abiti di alta moda.

Un’abitudine di Federer, che lo rende diverso da tutti gli altri atleti di primo piano che ho incontrato, è che ti chiede sempre per primo come stai e non per semplice cortesia: è realmente interessato a com’è andato il tuo viaggio, alla tua percezione del torneo, del Paese, della gente.

«Il motivo per cui Roger è interessante è perché è interessato», mi ha detto una volta il suo ex allenatore, Paul Annacone. Io e la mia famiglia – siamo in cinque – nel 2012 ci eravamo imbarcati in un giro del mondo: un intero anno scolastico in viaggio, partendo da tre mesi in Perù, Cile e Argentina. Federer voleva che gli parlassi delle cose belle che avevamo visto (le Torres del Paine e l’isola di Chiloé in Cile, Arequipa in Perù), ma più di tutto era interessato a come le mie tre figlie avevano reagito al viaggio, a quali benefici ne avevano tratto.

Ecco un altro indizio del suo progetto di restare in viaggio con la famiglia indefinitamente, perché le sue bambine potessero entrare a far parte della sua vita quotidiana e lui potesse mostrare loro il mondo. «In molte città siamo come ospiti fissi, e abbiamo amici dappertutto», mi disse. «La sensazione è un po’ quella di passare da una casa all’altra. Sento che funziona abbastanza bene adesso, soprattutto con le bambine. E vorrei continuare a farlo per loro, perché possano sentirsi a loro agio ovunque andiamo».

La curiosità di Federer – che sia sincera o frutto della sua educazione – dà alle interviste il tono di una conversazione. È disarmante, sebbene non sembra che sia sua intenzione. Quel che è intenzionale, invece, è come riesce a ricreare un’atmosfera di normalità in mezzo alla straordinarietà. Federer sa stare su un piedistallo (ha maturato molta esperienza in proposito), ma spesso sottolinea che è più felice quando può guardarti negli occhi. È una cosa che potrebbe avergli trasmesso sua madre Lynette. Quando qualcuno sente il suo cognome o un negoziante lo vede scritto sulla sua carta di credito e le chiede se è parente di quel Federer, lei risponde di sì ma poi sposta immediatamente l’attenzione sull’interlocutore, chiedendogli se anche lui ha dei figli.

«Guarda qua, ascolta», mi disse Federer con la sua caratteristica voce nasale da baritono, indicando fuori dal finestrino. «La polizia ci sta scortando in mezzo alla folla… Non è normale, no?»

«Buffo», dissi. «Pensavo che ti succedesse spesso».

«Grazie a Dio, no», replicò lui. «Mi considero un tipo normale, con un’affascinante vita da tennista, perché la vita dei tennisti è sempre più sotto i riflettori, si va in giro per il mondo, c’è il pubblico. Le recensioni sono immediate. Lo sai subito se vai bene o vai male. È un po’ come essere un musicista. Ma sai una cosa? È una bella sensazione. Anche se vai male, non importa. Puoi lavorarci. E andare bene ti dà fiducia e motivazioni, ti ispira. Devo ammettere che è davvero una vita straordinaria. A volte è difficile, perché viaggiare in continuazione può essere dura. Sai com’è. Ma l’altro giorno stavo pensando: sono entrato nei top ten tipo dieci anni fa e provo ancora le stesse cose. È come un’esperienza extra-corporea, sono quasi incredulo. Mi sento davvero fortunato, e credo sia uno dei motivi per cui mi piacerebbe giocare a lungo, perché quando mi ritirerò tutto questo non ci sarà più».

Federer sarebbe rimasto sorpreso di quante altre cose sarebbero successe prima del suo ritiro.

da “Roger Federer. Il maestro”, di Christopher Clarey, (traduzione di Stefano Travagli), Baldini + Castoldi, 2021, pagine 560, euro 22 

In libreria dall’11 novembre

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