A sessant’anni dalla scomparsaRicordare Luigi Einaudi come pensatore politico

Per commemorare l’ex presidente della Repubblica in un’antologia da lui curata per l’Istituto Bruno Leoni, Alberto Giordano si sofferma su un aspetto meno frequentato del personaggio ed eppure importante quanto il suo profilo di uomo delle istituzioni e di economista

Lapresse

Per commemorare i sessant’anni dalla scomparsa di Luigi Einaudi (1874-1961) l’Istituto Bruno Leoni ha pubblicato un’antologia, a cura di Alberto Giordano, che raccoglie una selezione sintetica ma completa degli scritti politici dell’economista e statista piemontese. Pubblichiamo di seguito un brano tratto dal saggio introduttivo di Alberto Giordano a “Luigi Einaudi e la politica” (IBL Libri, 2021, 156 pp., 12 euro).

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Il 30 ottobre 1961 si spegneva Luigi Einaudi. Solitamente siamo abituati a ricordarlo e celebrarlo nella duplice veste di economista e uomo delle istituzioni; talvolta qualcuno rievoca la sua lunga collaborazione ai principali quotidiani italiani mentre in altri casi, sebbene non troppo spesso, se ne rammenta l’impegno europeista. Ma quasi mai ci viene presentato come uno dei più originali pensatori politici che il nostro Paese abbia potuto vantare. Eppure la riflessione politica ha accompagnato, e spesso segnato, tutte le fasi della sua vita, privata e professionale. Il che contribuisce pure a rendere maggiormente comprensibile l’eco suscitata a livello globale dalla sua scomparsa, e non solo all’interno della galassia liberale cui appartenne.

Negli ultimi anni, poi, Einaudi ha via via assunto il ruolo di padre della Patria nel nostro immaginario collettivo, rievocato dalle più alte cariche dello Stato in quanto co-fondatore della Repubblica italiana dopo l’orrore fascista – quale in effetti fu, partecipando direttamente alla stesura della Carta costituzionale e alle più alte funzioni esecutive. E tuttavia, al medesimo tempo, la concezione einaudiana della politica, ricca di riflessioni stimolanti e tutt’altro che antiquata, non è ancora adeguatamente conosciuta dal grande pubblico, sebbene negli ultimi anni sia fortunatamente tornata al centro del dibattito intellettuale.

Il suo approccio alla politica va inserito entro una cornice concettuale che si riallacciava alla tradizione liberale autentica – quella composta da giganti del pensiero e della politica quali Adam Smith, James Madison, Benjamin Constant, Alexis de Tocqueville, Carlo Cattaneo, Camillo Benso di Cavour, John Stuart Mill, Walter Lippmann e Wilhelm Röpke, solo per citare i più cari a Einaudi – rielaborata però alla luce di una singolare prospettiva culturale non scevra da alcuni tratti di eclettismo, già a partire da quello che riteneva il tratto distintivo della tradizione liberale.

Scrivendo dall’esilio svizzero, al quale fu costretto per sfuggire ai nazifascisti dopo l’armistizio, ne diede una definizione perspicua e letterariamente felice: il liberalismo è «la dottrina di chi pone al di sopra di ogni altra meta il perfezionamento, l’elevazione della persona umana, una dottrina morale, indipendente dalle contingenze di tempo e di luogo». Se ciò, economicamente parlando, si incarnava nella difesa della libertà di iniziativa e di scelta della propria professione, sotto il profilo politico, «il liberalismo è una dottrina di limiti; e la democrazia diventa liberale solo quando la maggioranza volontariamente si astiene dall’esercitare coazione sugli uomini nei campi che l’ordine morale insegna essere riservati all’individuo, dominio sacro alla persona».

Einaudi muoveva da una concezione antagonistica della natura umana: gli individui, cellula primaria di qualsiasi organizzazione sociale, erano sempre tesi a dare il meglio di sé quando potevano esprimersi liberamente e autonomamente. Da qui la convinzione che il dibattito, il contrasto, la lotta tra ideali e stili di vita diversi costituissero il presupposto del progresso e del miglioramento delle condizioni morali e materiali degli individui. Una visione che, sebbene diffusa all’interno del panorama liberale – Einaudi stesso l’aveva tratta soprattutto da Mill – egli declinò però con indubbia originalità.

In un saggio composto nel primo dopoguerra e dedicato all’esame critico del collettivismo propugnato da socialisti e comunisti, Einaudi dichiarava che «il bello, il perfetto non è l’uniformità, non è l’unità, ma la varietà ed il contrasto» e sosteneva, di conseguenza, che la tendenza verso l’uniformità denotasse un processo di decadenza in atto. «L’aspirazione all’unità, all’impero di uno solo è una vana chimera – scriveva – è l’aspirazione di chi ha un’idea, di chi persegue un ideale di vita e vorrebbe che gli altri, che tutti avessero la stessa idea».

Alla base di tutto si trovava la sua riprovazione del principio secondo il quale «dovrebbe essere un ideale pensare ed agire allo stesso modo», da cui discendeva che le istituzioni avrebbero dovuto limitarsi a imporre «limiti alla violenza fisica, al predominio di un uomo sugli altri», fornire «agli uomini le opportunità più uniformemente distribuite per partire verso mete diversissime» e insomma costruire gradualmente una cornice progettata per consentire agli individui di sviluppare convinzioni e percorsi vari e tra loro contrastanti, nel rispetto dell’eguale diritto altrui e degli insegnamenti tramandati dalle generazioni precedenti. Volendo riassumere tale posizione con le sue stesse parole: «l’impero della legge come condizione dell’anarchia degli spiriti».

Il punto venne ribadito da Einaudi in un celebre articolo pubblicato alcuni anni dopo per La Rivoluzione Liberale, la rivista fondata e diretta da Piero Gobetti, nel quale ribadiva di provare «simpatia viva per gli sforzi di coloro i quali vogliono elevarsi da sé e, in questo sforzo, lottano, cadono, si rialzano, imparando a proprie spese a vincere e a perfezionarsi». Proprio qui risiedeva lo spirito del liberalismo, perché per Einaudi «liberale è colui che crede nel perfezionamento materiale o morale conquistato con lo sforzo volontario, col sacrificio, colla attitudine a lavorare d’accordo con altri». E d’altra parte la natura umana gli pareva «cosiffatta da repugnare alla lunga al vivere quieto e tranquillo».

Una delle principali funzioni attribuite allo Stato liberale era precisamente la tutela del diritto al dissenso, alla critica, alla messa in discussione di qualsiasi idea e provvedimento. Una logica analoga valeva anche nell’ambito della politica economica: dalla sua impostazione discende una particolare visione della concorrenza secondo cui il mercato, certo, è uno spazio entro il quale solitamente vengono soddisfatte le preferenze dei consumatori alle condizioni più favorevoli, cosa da tenere in grande considerazione. Ma il sistema basato sulla libertà di iniziativa consente soprattutto agli individui di accedere il più autonomamente possibile a qualsiasi professione essi desiderino intraprendere come strumento di autodeterminazione economica ed elevazione morale.

Al cuore del suo liberalismo economico, dunque, si collocava la difesa del pluralismo, che non si traduceva meramente nella tutela della molteplicità di attori presenti sul mercato, ma anche nella promozione di un variegato bouquet di professioni intraprese secondo le inclinazioni personali. Un’impostazione che dava origine a una teoria normativa segnata dall’interconnessione tra libertà civili, politiche ed economiche; tanto che persino «la libertà del pensare» gli pareva legata a «una certa dose di liberismo economico».

Questo perché «lo spirito libero crea un’economia a sé medesimo consona» e pertanto «crea un’economia varia, in cui coesistono proprietà privata e proprietà di gruppi, di corpi, di amministrazioni statali, coesistono classi di industriali, di commercianti, di agricoltori, di professionisti, di artisti, le une dalle altre diverse, tutte traenti da sorgenti proprie i mezzi materiali di vita». Un’economia nella quale le tendenze monopolistiche – che, secondo Einaudi, rappresentano la peggiore distorsione del mercato – vengono combattute garantendo la presenza della massima quantità di partecipanti al processo di produzione e di scambio di beni e servizi, tenendo a mente che «senza la coesistenza di molte forze vive di linfa originaria non esiste società libera, non esiste liberalismo».

Lo Stato liberale, per Einaudi, deve muovere «dalla premessa, la quale è sua fede e sua ragion d’essere, che l’individuo debba essere messo nelle migliori condizioni di sviluppare la pienezza della sua personalità, per arricchire di nuovi beni, morali e materiali, se medesimo e la collettività». La funzione primaria di una Carta costituzionale si riassume perciò nel garantire le libertà e i diritti dei cittadini, a partire da quella «libertà illimitata di discussione per cui ogni uomo può colla parola e collo scritto cercare di dimostrare l’errore o l’insufficienza delle idee e dei propositi di ogni altro uomo, il quale aspiri a partecipare alla vita pubblica».

Un risultato che si poteva ottenere solo sottraendo il dettato costituzionale a troppo frequenti revisioni, così da impedire a maggioranze e governanti poco accorti, o ispirati da idee antiliberali e antidemocratiche, l’imposizione di una soffocante tirannia. Di qui l’importanza di un ordinamento contrassegnato dalla separazione dei poteri – tanto in senso orizzontale (legislativo-esecutivo-giudiziario) che verticale (centro-periferia) – e dalla presenza di vincoli giuridici tali da scongiurare, o da rendere estremamente improbabili, gli abusi di potere. Questo perché, sosteneva in uno dei suoi saggi più celebri, «ove non esistano freni al prepotere dei ceti politici, è probabile che il suffragio della maggioranza sia guadagnato dai demagoghi intesi a procacciare potenza, onori e ricchezze a sé, con danno nel tempo stesso della maggioranza e della minoranza».

Simili “freni” sarebbero serviti a «limitare la libertà di legiferare e di operare dei ceti politici governanti scelti dalla maggioranza degli elettori», ad esempio prevedendo – come prevede la Costituzione italiana – che alla revisione costituzionale si procedesse esclusivamente in presenza di una maggioranza qualificata. Ma non si tratterebbe forse di una disposizione che contrasta con l’idea stessa di democrazia? No, rispondeva Einaudi: solo «in apparenza è violato il principio democratico il quale dà il potere alla maggioranza; in realtà, limitandone i poteri, i freni tutelano la maggioranza contro la tirannia di chi altrimenti agirebbe in suo nome e, così facendo, implicitamente tutelano la minoranza».

Ciò non voleva significare, beninteso, che poco o nulla valesse il volere della maggioranza. Al contrario, Einaudi era pronto a riconoscere che «la fonte del potere politico è una sola: la volontà del popolo liberamente manifestata, nel segreto dell’urna, per mezzo della scheda elettorale», e ad assegnare al Parlamento e al governo i poteri necessari per poter operare con successo e incisività – sotto lo sguardo vigile e imparziale della magistratura. Ma una società retta da un regime nel quale la maggioranza, elettorale e parlamentare, conservasse il potere di mutare radicalmente e interamente l’ordinamento statuale, per Einaudi non equivaleva affatto a un modello da imitare. Avversario delle riforme strutturali ed estimatore del gradualismo, egli apprezzava la lenta ma costante evoluzione delle istituzioni politiche, economiche e sociali che aveva osservato in Paesi quali la Gran Bretagna e la Svizzera.

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