Siamo fortemente, biologicamente, legati alle piante, ma pur parcheggiando le nostre macchine sotto le loro chiome, bruciandone il legno, mangiandone i frutti, pur facendo questo e altro, non le conosciamo: peccato, nelle loro radici c’è la nostra eredità, nei tronchi una nota del tempo, atmosferico e cosmico, che dovremmo ascoltare.
Gli alberi di ciliegio, in genere, sono molto alti, fino a dieci metri, alcune antiche cultivar ancora di più, ne consegue che uno dei costi maggiori nella coltivazione del ciliegio è proprio la raccolta. Hai bisogno di lunghe scale, e poi mettici il pericolo e, insomma, negli anni Ottanta si trovavano poche persone disposte a salire tra le fronde per raccogliere le drupe, e quelle disposte a farlo, be’, dovevi pagarle bene. Per questo stavamo perdendo le ciliegie, e con loro il desiderio, e i simboli che questo albero si porta dietro. Fortuna che siamo riusciti a innestare una varietà barese, «Ferrovia», più bassa, con altre varietà, e così ecco alberi di circa tre metri, facilmente adattabili ai vari ambienti (Emilia, Trentino). Risultato? Il costo è sceso..
Era questa la traccia del mio intervento a un convegno all’Orto botanico di Napoli. Uno dei soliti a cui sono invitato in veste di scrittore fissato con le piante. Io accetto sempre, non perché mi reputi competente, è che mi faccio spiegare tutto da Antonino per fare bella figura. Ho parlato di nuove cultivar, ottenute grazie al miglioramento genetico. In queste, il peduncolo, cioè l’elemento che collega il frutto al ramo, si stacca più facilmente. Così invece di salire sulla pianta e raccogliere a uno a uno i grappoli, basta scuotere i rami ed ecco il desiderio nelle nostre mani. Anche in questo caso il costo per la raccolta è più basso.
– Dobbiamo salvare il ciliegio, – ho aggiunto avviandomi a concludere il mio intervento, – è un albero ricco di simboli e di riti dimenticati.
Ci tenevo a essere convincente, per questo ne ho elencati alcuni.
– Gli albanesi nelle notti del 24, 31 dicembre e 5 gennaio bruciano i rami di ciliegio e poi la cenere viene conservata per concimare la vigna. Nelle campagne francesi, gli innamorati mettono un ramo di ciliegio in fiore davanti all’uscio delle loro fidanzate nella notte tra il 30 aprile e il 1o maggio. E conoscete la canzone Era de maggio, musicata sui versi di una poesia di Salvatore Di Giacomo: racconta di due amanti che si ritrovano a maggio. Lei è in un giardino con i grappoli di ciliegie che le cadono in grembo, lui la guarda incantato, a bocca aperta. Devono separarsi ma niente paura, tornerà maggio, torneranno le ciliegie e loro canteranno insieme una canzone.
Visto che avevo citato Di Giacomo mi è tornata in mente Cristina, volevo parlare del rapporto tra ciliegio e amore, amore e desiderio, desiderio e morte, morte e bellezza, ma niente, finisce sempre così, o non mi ricordo le cose oppure ne voglio dire troppe e non riesco a metterle una dietro l’altra.
Vabbè, applausi, dopodiché, prima di tornare a Roma, ho pensato: mo faccio una sorpresa ai miei, Napoli-Caserta sono venti minuti di treno, mangio con loro e poi riparto. Ho telefonato ai miei genitori: – Oh, mi fate mangiare una cosa, sì?
Mio padre mi ha risposto: – Qua stiamo.
Niente, abbiamo mangiato, due chiacchiere veloci, le solite. Poi, mentre mio padre preparava il caffè mia madre, all’improvviso, ha detto: – Siamo rimasti soli, – e l’ha ripetuto. – Tutti quelli della nostra giovinezza sono morti, è tutto in bianco e nero adesso, come diceva il nonno.
È incredibile, era una bella giornata di sole e si è scurito tutto.
– Mamma, che è stato, – ho chiesto, – che è successo? –
Niente, la sera prima aveva visto in televisione Il giardino dei ciliegi. Da quando hanno la smart tv guardano un sacco di film e spettacoli teatrali. Però si era spaventata per il finale, le ultime parole del maggiordomo: «Si sono scordati di me… La vita è passata, e io… è come se non l’avessi vissuta».
Sono tornato al 1975, il bianco e nero, mio nonno morto, lo sfarfallio: eccoci qui, ho pensato, ci risiamo.
Ho detto: – Esco un minuto, vado e vengo –. Sono arrivato sulla montagnella, appoggiati al ciliegio c’erano due ragazzi, entrambi con i capelli lunghi, abbracciati e sorridenti, filiformi, erano bellissimi. A vederli, tra tutte le cose che potevo pensare mi è venuta in mente la più banale: la vita è più bella della morte – magari non lo penso sempre, ma quel giorno sì.
Ho detto: – Scusate, vorrei prendere dei rami.
– No, per carità, – ha risposto lui, – fate, – mi dava del voi e ho pensato un’altra cosa banale: la giovinezza è meglio della vecchiaia.
Comunque il ciliegio conservava ancora i segni dello strappo di quarant’anni prima. Ho deciso di staccare un ramo. Ho cercato di essere delicato, ma ho dovuto forzare, torcere, il legno era umido e non voleva rompersi.
Poi ho voltato le spalle all’albero, ma dopo due passi ho sentito come una voce, forse un tocco lieve sulla spalla, e sì: il richiamo del ciliegio. Così mi sono girato. Che dire, la fioritura era bella, come al solito, ma il tronco, i rami avevano un altro portamento. Più mesti, ingobbiti. A guardarla bene, ora era una pianta in bianco e nero, evanescente, stava sparendo come l’immagine dalla tv, uno sfarfallio. Ho sentito il desiderio di salire di nuovo, come quarant’anni prima, tra le fronde, non per cogliere rami e brandire il mio desiderio, al contrario, volevo sparire, abbandonarmi al ronzio del tempo: per capire la vita bisogna accettare la morte.
E mi è tornato in mente Randazzo: hai visto mai che proprio oggi ho colto il senso dell’impermanenza? In quel momento ho pensato: questa è una rivelazione che merita un racconto. Il ciliegio, il desiderio e le sue declinazioni, mi sembrava di averci capito tutto.
Per prima cosa ho donato il ramo di ciliegio a mia madre, poi mi sono rifatto il caffè. Intanto mio padre si stava lamentando: – Guarda che strappo hai fatto, potevi portarti un coltellino, l’hai rovinato ’sto ramo.
Gli ho risposto che quel ciliegio resisteva bene, già quarant’anni prima quelli del quartiere lo avevano devastato. – Cioè, – ho aggiunto, – i ciliegi che hai piantato tu nel giardino si sono ammalati, e infatti li hai dovuti tagliare, invece quello niente.
– Ma di quale ciliegio parli? – ha chiesto mio padre.
– Quello sulla montagnella, papà, – ho aggiunto. – Uno ce ne sta nel quartiere, come quale?
– Quello è un Prunus cerasus, non avium. Sono amarene, non ciliegie.
– Ma che dici? – ho risposto. – Quando mai? Io le ho mangiate quelle ciliegie.
– Hai mangiato le amarene, non le ciliegie –. Poi ha preso il ramo: – Lo vedi? I fiori so’ piccoli rispetto al ciliegio dolce, è pure diversa l’infiorescenza.
Sono andato a controllare in rete: cazzo. Erano amarene.
– Cioè, – mi ha detto mio padre, – so’ quarant’anni che confondi le ciliegie con le amarene? Un frutto amaro… Mi raccomando non ci scrivere un racconto sopra… che qua fai figure di merda, altro che i tuoi voli pindarici.
da “La foglia di fico. Storie di alberi, donne, uomini”, di Antonio Pascale, Einaudi, 2021, pagine 296, euro 20