C’è oggi un’età, forse l’unica, in cui il traguardo principale in ambito lavorativo non è l’occupazione né l’ammontare di stipendi e entrate, ma la fine stessa del lavoro. È quella che comincia dopo i 50 anni, all’incirca a 55, e termina appunto quando si va in pensione, mediamente verso i 63-65 anni.
E il peso specifico che ha questa fascia di italiani nel mondo della politica e dell’economia ha fatto in modo che una parte importantissima del dibattito pubblico degli ultimi 25-30 anni proprio su questo sia stato incentrato, l’età pensionabile.
Perché? Un indizio viene dai dati molto eloquenti sui redditi in base all’età. I 55-64enni sono inequivocabilmente i più ricchi, con 19.489 euro a testa nel 2019. Si tratta ovviamente di un valore mediano, che sconta livelli di disuguaglianza, geografica e soprattutto settoriale, particolarmente ampia.
C’è però un vantaggio di circa 2mila euro rispetto alla grande massa della forza lavoro, coloro che hanno tra i 25 e i 54 anni, per non parlare dei più giovani, gli under 25 e i minorenni.
Che alla fine della carriera i redditi siano più alti è cosa normale, ma il dato più rilevante qui è come si è evoluto il gap tra questo segmento di età e gli altri italiani.
Nel nostro Paese è tra i più alti in Europa, dell’11,4%, e con il tempo è cresciuto in modo decisamente vistoso, in particolare negli anni precedenti alla crisi finanziaria e dell’euro, passando dal 2% al 12,1% circa, per poi rimanere su livelli superiori a quelli medi e dell’Europa Centro-settentrionale.
È degno di nota il fatto che, al contrario, in Germania i redditi dei 55-64enni siano addirittura inferiori a quelli dei più giovani, e nei Paesi Bassi sostanzialmente gli stessi.
Questo indica che la causa dell’importante divario in Italia e Spagna non stia tanto nel fatto che l’occupazione di chi ha più di 50 anni, storicamente bassa, sia cresciuta notevolmente negli ultimi 20 anni, raddoppiando nel nostro Paese. A più alte latitudini in realtà da sempre si lavora di più anche a questa età.
Chiaramente c’entra la diversa struttura degli incrementi salariali, più basati sull’anzianità che su altri fattori, oltre che l’introduzione di forme di precariato che hanno risparmiato quasi completamente i lavoratori più anziani.
Si può comprendere come questa fascia di età sia quella che in un certo senso dal punto di vista economico abbia meno necessità di guadagnare.
Anche la povertà è meno presente. E altri dati lo confermano.
In Italia a essere poveri sono il 17,8% dei 55-64enni, contro il 26,2% dei 20enni e il 20,2% dei 25-54enni.
In Germania la percentuale di indigenti è simile per chi è sulla soglia della pensione, ma al contrario è molto più bassa per coloro che sono nel pieno dell’età lavorativa, oltre che per i minorenni.
Gran parte dei 50enni e 60enni italiani, che del resto hanno da parte quantità di risparmio notevole, possono permettersi di guadagnare un po’ meno in cambio della pensione.
Ma quanto meno? Questo è un altro fattore importantissimo per capire la pressione di sindacati e opinione pubblica verso il ritiro il più anticipato possibile.
Nel tempo i redditi mediani degli over 65 sono cresciuti moltissimo, passando dai poco più di 12 mila euro di metà anni ‘90, meno di quelli dei 20enni, ai 17.300 del 2019, quando erano ormai vicinissimi a quelli dei 25-54enni.
Sono aumentati addirittura più di quelli dei nostri 50enni e 60enni.
Tanto che il gap tra questi e quelli dei più anziani, naturalmente in gran parte in pensione, è crollato, anche più di quanto non sia accaduto in altri Paesi, da circa il 27% al 12,6% attuale, ed è uno dei più piccoli in Europa, considerando che per esempio nei Paesi Bassi supera il 30%.
Chi si accinge a raggiungere l’età del ritiro è quindi sempre più ricco, in particolare rispetto alle altre fasce di età, e nel tempo si è reso evidente come andando in pensione la perdita di reddito rispetto all’ultima fase della carriera sia sempre più limitata.
Si comprende perché sia una priorità smettere di lavorare per questa generazione d’oro, l’ultima ad avere iniziato a lavorare prima dell’inizio della nuova era, iniziata gli anni ‘90, in cui la fine del posto fisso si è accompagnata alle varie riforme delle pensioni.
L’ultima che a 20 anni vedeva ancora in vigore le baby-pensioni.
E soprattutto l’ultima per cui la promessa di stipendi in perenne crescita si è dimostrata veritiera.
Convincere costoro della necessità di una spesa previdenziale più bassa sarà quasi impossibile, del resto non ci si è riusciti finora, e non ci riuscirà neanche Draghi, che però ha ben chiaro il paradosso per cui accontentare questi lavoratori, i più ricchi, i più fortunati, significherebbe ancora una volta rimandare interventi a favore delle generazioni più povere, quelle alle prese con la precarietà.
Queste ultime hanno invece saputo da subito, da quando hanno cominciato a lavorare, che il traguardo della pensione a 60 anni sarebbe stata una chimera, e quando ne avranno 55 o poco più vedremo forse una minore pressione verso ritiri anticipati, anche perché gli assegni pensionistici non saranno poi così appetibili.
Prima di allora, però, avranno tutto il diritto ad avere redditi di lavoro più alti, e questo sarà possibile solo non cedendo alle richieste dei più anziani di spostare ancora una volta la coperta dalla loro parte.