Lungo le coste ci saranno parchi eolici collegati a impianti di trasformazione dell’acqua in idrogeno. Da lì partiranno chilometri di tubature che raggiungeranno altri poli industriali, case o siti di stoccaggio in profondità. Le navi verranno alimentate con ammoniaca, ricavata dall’idrogeno. Gli aerei voleranno con kerosene sintetico, anche questo ottenuto con l’idrogeno. E in un mondo elettrificato, dove l’energia deriverà in gran parte da fonti rinnovabili, sarà sempre l’idrogeno a fornire il surplus necessario per contrastare l’irregolarità delle forniture naturali.
È un ritratto del mondo del 2050, a emissioni nette zero, per come viene disegnato dall’Agenzia internazionale dell’energia. La produzione dell’idrogeno – stabilisce l’Agenzia – dovrà crescere e passare dalle 90 megatonnellate del 2020 per raggiungere le 530 del 2050.
Si tratta di un cammino a più fasi, determinato dallo sviluppo e dall’adozione su larga scala di alcune tecnologie fondamentali sia per la produzione sia per l’impiego dell’idrogeno. In primo luogo, gli elettrolizzatori. Si tratta di dispositivi che raccolgono idrogeno rompendo le molecole di acqua, mediante l’impiego di energia elettrica. Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia il 60 per cento dell’idrogeno del 2050 proverrà da qui, ma perché il processo avvenga in modo pulito (cioè senza emissioni di CO2) l’elettricità impiegata dovrà provenire da fonti rinnovabili.
In questo senso, si suggerisce di concentrare la loro presenza nei pressi di parchi eolici o fotovoltaici. È ciò che prevede, ad esempio, il progetto olandese NortH2, un consorzio formato da Gasunie, Groningen Seaports e Shell Nederland per produrre idrogeno verde utilizzando elettricità rinnovabile generata da un megaparco eolico nell’Eemshaven, un porto nel Nord-Est dei Paesi Bassi, partendo da 3 o 4 GW nel 2030 per poi crescere fino a una capacità di circa 10 GW entro il 2040. Questa “hydrogen valley” olandese sarebbe pronta entro il 2027 e sfrutterebbe così l’energia accumulata in eccesso dagli impianti offshore.
Sarà anche necessario spostare su larga scala la produzione di modelli di elettrolizzatori già in uso e insistere nell’implementazione di prototipi provvisti di capacità sempre maggiori, in modo da abbattere gradualmente i costi e favorirne la diffusione (nel 2050 dovranno produrre 3.600 GW rispetto agli 0,3 di oggi). Al momento ne esistono di quattro tipi. L’alcalina (Aec), l’elettrolita polimerico solido (Pem), la membrana a scambio anionico (Aem) e l’ossido solido (Soec). Ognuna di queste tipologie ha delle potenzialità e delle criticità e può essere sviluppata, ma servono investimenti continui che saranno facilitati dal costo sempre più basso delle energie rinnovabili. Ad accompagnare tutto questo servirà un piano infrastrutturale che contempli un facile accesso alle fonti di energia (per questo i porti sono le collocazioni più indicate) e alla rete di distribuzione.
Nel suo complesso, l’elettrolisi assorbirà 15mila terawattora, cioè il 20 per cento della fornitura elettrica globale e sarà garantita da rinnovabili (95 per cento), dal nucleare (3 per cento) e dalle tecnologie che consentano la cattura, l’utilizzo e lo stoccaggio del carbonio (Ccus, sigla che sta per Carbon Capture Utilisation and Storage) al 2 per cento. Proprio queste ultime, le CCUS, risultano essenziali per il conseguimento degli obiettivi climatici.
In questo caso specifico, saranno impiegate per la produzione del restante 40 per cento di idrogeno, ottenuto attraverso la trasformazione del gas naturale. È il cosiddetto reforming, dove l’idrogeno viene estratto da idrocarburi fossili. Il processo implica la liberazione di anidride carbonica che viene subito ricatturata con le CCUS. A quel punto può essere reimpiegata (utilization) nella produzione di materiali, di reagenti chimici o come solvente, oppure può venire reiniettata in siti di stoccaggio in profondità. Nel 2050 il reforming impiegherà 925 miliardi di metri cubi di gas naturale (cioè la metà di tutta la domanda globale) e assommerà a 1,8 gigatonnellate di CO2 catturata.
Lo sviluppo di entrambe le tecnologie sarà sostenuto, ma la scelta tra le due dipenderà dalle necessità di ciascun Paese e, in via secondaria, dai costi, anche se nel 2050 saranno più o meno parificati (cioè 1 – 2,5 dollari per chilo).
Oltre alla fase di produzione, l’innovazione interverrà anche in quella di utilizzo dell’idrogeno. È il caso delle flue cells, ovvero delle pile a combustibile, un dispositivo elettrochimico che può convertire l’energia chimica direttamente in energia elettrica ottenendola da idrogeno e ossigeno, senza alcuna combustione termica.
Dei 530 milioni di tonnellate di idrogeno prodotti nel 2050, il 50 per cento sarà impiegato nell’industria pesante (acciaio, in primo luogo) e nei trasporti. È qui, soprattutto nel caso dei mezzi pesanti, che si renderà necessario lo sviluppo e la diffusione di efficienti pile a combustibile alimentate a idrogeno.
Secondo il piano dell’Agenzia internazionale dell’energia, l’ingresso nell’automotive è previsto dopo il 2030 e seguirà la diffusione di strumenti tecnologici con sufficienti parametri di sicurezza e di efficienza. Al momento la tecnologia delle pile a combustibile ha difficoltà a combinare la praticità delle dimensioni, del peso e della pressione cui sottoporre l’idrogeno. Una strada promettente contempla l’impiego di nanomateriali per ottenere una maggiore densità.
In generale, la sua diffusione commerciale andrà di pari passo con il rinnovamento della catena di produzione degli automezzi, sia per il design sia la componentistica. Ma anche e soprattutto con un programma infrastrutturale che contempli il trasporto e la diffusione capillare dell’idrogeno nelle strade (come è in procinto di avvenire lungo l’autostrada A22 in Italia).
L’unica certezza è che l’idrogeno è facile da stoccare e trasportare. Secondo lo studio European Hydrogen Backbone entro il 2050 la domanda di idrogeno di tutta l’Unione europea e nel Regno Unito aumenterà di almeno 2.300 TWh, più o meno un quarto della domanda futura di energia. Per evitare di costruire da zero una nuova rete europea dell’idrogeno in grado di reggere la domanda, si possono utilizzare quasi il 75 per cento dei gasdotti esistenti, riconvertendoli all’idrogeno.
Il costo delle modifiche? Varia tra il 10 e il 25 per cento rispetto alla costruire di una nuova rete da zero. Il costo totale stimato per la riconversione e per i nuovi metanodotti, da realizzare entro il 2040, è tra i 27 e i 64 miliardi di euro. Un’opzione più conveniente del trasporto via nave, almeno in Europa, perché il costo oscillerebbe solo tra 0,11 e 0,21 euro per kg per 1.000 km.
Insomma, i fronti su cui intervenire sono numerosi. Sarà una rivoluzione strutturale fatta di elettrolizzatori, impianti per la cattura della CO2 e nuove batterie. Ma anche di sistemi di stoccaggio, di tubature e di impianti di trasformazione.
A maggio, durante l’audizione sul Piano nazionale di ripresa e resilienza alla Commissione Attività produttive della Camera, Alberto Dossi, presidente dell’associazione delle aziende italiane dell’idrogeno (H2IT) ha chiesto formalmente al governo «un piano strategico chiaro, di ampio respiro e che non subisca battute d’arresto o inversioni di marcia, ma che proceda gradualmente con azioni sul breve, medio e lungo periodo», per sviluppare una rete infrastrutturale per la mobilità a idrogeno.
Perché serve da parte di tutti, pubblico e privato, uno sforzo collettivo per realizzare una delle imprese più grandi dell’umanità: disegnare un nuovo panorama energetico, rinnovabile e sostenibile.
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