Stendhal a RacalmutoSciascia è il dilettante professionale che ci salva dai professionisti dilettanteschi

In “Fuoco dell’anima” (Adelphi), frutto delle conversazioni con Domenico Porzio, lo scrittore siciliano ripercorre i fili che lo legano all’autore de “La Certosa di Parma”, ma anche a Manzoni e ad Alberto Savinio. E ci invita a non dimenticare che letteratura è memoria. E che fuor di quella è vaniloquio

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Sciascia sale e Calvino scende, sulla bilancia della letteratura. È qualcosa che esce allo scoperto ogni giorno che passa, nel discorrere dei pochi che hanno a cuore quell’albero abbandonato ai tarli che è la letteratura italiana.

Per chi ha avuto la ventura di avere vent’anni tra la fine degli anni Settanta e i primi degli Ottanta Italo Calvino e Leonardo Sciascia (in ordine alfabetico) rappresentavano i letterati e scrittori italiani di riferimento. (Pier Paolo Pasolini era un’altra cosa: intellettuale lucido e letto con attenzione, ma scrittore di poca rilevanza. Tranne a Roma – ma è altra storia).

Nel 1989 Calvino passò nella scuderia di Andrew Wylie, agente letterario molto abile e potente, che lo impose nel mondo atlantico e così in tutto il globo letterario. (Calvino era morto quattro anni prima; Sciascia lo avrebbe seguito in quel 1989). Nel 1988 uno svelto manualetto tra il lunario e il vademecum, “Lezioni americane”, dal fatale sottotitolo “Sei proposte per il prossimo millennio” e scritto per essere tradotto in lingua atlantica, divenne il nuovo “Siddharta”: un libretto sapienziale. Tutti (quasi: io, no) i giovani letterati italiani credettero d’aver trovato l’uovo di Colombo. Intanto Roberto Calasso con mossa geniale portava nel catalogo Adelphi proprio lui, l’altro dioscuro: Leonardo Sciascia. Mai sodalizio fu più favorevole a un autore. Una sorta di provvidenza letteraria aveva disposto per il meglio.

(Sto dicendo di letteratura: non c’è spazio quindi per i primi sintomi della pandemia detta “pura narratività”, che sia la variante riminese o la torinese. Quella è materia per altro. È materiale per la storia del costume, editoriale e no).

La riproposta di “Fuoco all’anima”, frutto delle conversazioni con Domenico Porzio, amico dell’autore e curatore del Meridiano delle opere di Jorge Luis Borges, è l’occasione per fare il punto sull’eredità letteraria di Sciascia. (Il piccolo libro è una conversazione sul filo della memoria e della passione letteraria, variegata di malinconia, dove ritornano i temi portanti dell’opera). Succede infatti che la sicura scelta di campo di Sciascia si imponga oggi come la più solida e necessaria
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La posizione di Sciascia è chiara e netta, fin dalla premessa: allo storico il compito dell’accertamento dei fatti; al narratore la narrazione di come i fatti vengono vissuti e le conseguenze che seguono. (È la lezione di Alessandro Manzoni). Al letterato è chiesto di essere chroniqueur, di partecipare all’accertamento dei fatti; come pure di esporsi come narratore. Può esercitare entrambe le facoltà (Sciascia lo ha fatto), oppure scegliere una delle due, nell’opera; ma deve avere cognizione di entrambe. Non c’è romanzo senza Storia – e sarebbe bene ricordarselo.

Calvino lo sapeva, eccome – almeno: il primo Calvino. Scrive Sciascia, nel 1957: «Perché anzitutto Calvino è fedele alla storia: e sotto il libero e felice trascorrere della sua fantasia e della sua memoria (ma anche la fantasia in Calvino è memoria) c’è sempre un preciso e radicato senso della storia». Si tratta qui di una recensione di “Il barone rampante”: e già si potrebbe dirlo discutibile. Certo è che a far data da “Il castello dei destini incrociati”, 1969, Calvino avrebbe preso un’altra direzione: quella dei cruciverba narrativi, esercizi tanto penitenti quanto punitivi.

La posizione di Sciascia riguardo alle avanguardie e agli sperimentalismi conseguenti è altrettanto netta: li avversa, per istinto. Non avrebbe mai potuto nutrire interesse per le dilettevoli devianze dell’OuLiPo, come invece è stato di Calvino. Sciascia crede nella fedeltà alla tradizione europea del Moderno prima delle avanguardie. Indicativa al riguardo la memorabile recensione all’“Ulysses” di Joyce, all’uscita della prima traduzione integrale italiana, nel 1960. (Sciascia aveva peraltro letto molto tempo prima la traduzione francese di Valery Larbaud, e ironizzava sul fatto della tardiva passione dei letterati italiani per Joyce). Altrettanto netta e senza remissione è la diffidenza per le pseudo-scienze col suffisso -logia, in particolare la psicologia, soprattutto la letale variante detta “analitica”: «Credo che la psicanalisi ci sia sempre stata. Elevarla a terapia è una truffa». Non nutriva certo dubbi.

La tradizione europea del Moderno, quindi: Diderot e Voltaire, Manzoni e Stendhal: «Manzoni è un figlio del Settecento, come Stendhal. Sono nati nel Settecento. Poi vennero Marx, Freud… una grande confusione». Di nuovo, il distacco dalle scienze soi-disant umane. Emerge qui la distanza dalla letteratura novecentesca imbastita con i fili della psico-logia, la passamaneria della socio-logia, più le nappe viennesi. (Quando deve indicare i tre scrittori decisivi del Novecento fa i nomi di Luigi Pirandello, Franz Kafka e Borges – certo non tre scrittori determinati dalla passione per le scienze). Manzoni e Stendhal, sempre – soprattutto Stendhal. Difficile non acconsentire. Poi Sciascia fa il passo che mi conquista, oggi come allora: «C’è un solo precedente a Stendhal: ed è Montaigne. E Stendhal ne ha piena coscienza. “Ho cercato di raccontare come Montaigne” dice. E si badi: “di raccontare”». Voilà l’alleanza tra racconto e saggio, tra fabula e discorso, tra mythos e logos – e sotto il segno del romanzo. Eccolo, il “Lezioni europee” di Leonardo Sciascia.

Non è finita, c’è un Terzo Uomo – e non può che essere stendhaliano d’elezione: Alberto Savinio, il dilettante di genio. «Dilettante come Stendhal. E sinonimo di dilettante era per lui stendhaliano, come si vede dalle tante sue dichiarazioni di stendhalismo», scrive Sciascia in un breve saggio dedicato. Più avanti, nello stesso saggio fissa la precisa peculiarità di Stendhal e degli stendhaliani: «Lo stendhalismo è invece, peculiarmente, il rifiuto della noia, il dilettarsi della vita, l’esser dilettanti». Oggi più mai varrà per il letterato come esortazione, l’esser dilettanti operosi: è il miglior modo di avversare i professionisti della inconsistenza.

La prima caratteristica del dilettante è l’estraneità, lo stare discosto. Mai partecipare.

Non poteva certo Savinio, il divino dilettante, intrupparsi nel Surrealismo o in altra squadra di professionisti dell’avanguardia, il nuovo genere pittorico e letterario. (Bisognerà tornare su questi passi, dire di come Savinio pittore esaurisca sul nascere e per parodia il surrealismo e i neo-classicismi inter nos). Per rimanere al Savinio scrittore, Sciascia coglie per consonanza il tono di famiglia e il dono felice: «Lo scrittore, ecco, è di quelli che coinvolgono nella loro storia la storia del lettore e i cui libri hanno il potere di scegliersi immediatamente il lettore e di non lasciarlo più». La fedeltà al lettore che diventa fedeltà del lettore – e «così strenua da confinare con la mania», come con Stendhal. Il cerchio della fedeltà.

La prima fedeltà e originaria è quella all’unica Musa, che tutte le muse genera: la Memoria. Sciascia accoglie con la naturalezza del consanguineo il credo di Savinio: «La memoria è la nostra cultura. È l’ordinata raccolta dei nostri pensieri. Non solamente dei nostri propri pensieri: è anche l’ordinata raccolta dei pensieri degli altri uomini, di tutti gli uomini che ci hanno preceduto. E poiché la memoria è l’ordinata raccolta dei pensieri nostri e altrui, essa è la nostra religione (“religio”)». Cos’è se non un ritratto in trasparenza di Leonardo Sciascia, uomo e scrittore, che ha partecipato tanto dell’accertamento dei fatti da consegnare alla memoria quanto al racconto di come i fatti sono stati vissuti? La fedeltà alla memoria è letteratura. «Se l’arte non deriva dalla Memoria, l’arte è ignobile (plebea), ristretta e piena di noia: vana come i sogni…»: è ancora Savinio citato da Sciascia, che i sogni li diceva “maleducati” e non li teneva in gran conto. La Memoria è ben altro dai sogni. Oggi, nell’Età dell’inconsistenza, la memoria è sostanza.

Un’ultima tra le molte corrispondenze tra Sciascia e Savinio: Milano, che vuol dire Manzoni e Stendhal. Savinio ha scritto il più bel libro del Novecento su Milano, “Ascolto il tuo cuore, città” – e tornerò sul libro milanese e Savinio; Milano è luogo anche per Sciascia, e non solo letterario: come Parigi è l’Europa, il sogno di quella. «Milano è tra le città italiane la più intrinsecamente italiana, quella che più e meglio accetta l’Italia unita e ne restituisce intera l’immagine; quella, insomma, in cui ogni italiano è di casa», scrive allacciandosi alla intuizione di Stendhal su Milano come sintesi dell’Italia: «Si può fondatamente affermare che Milano ne fosse per lui [Stendhal] lo specchio, la sintesi, la fusione e, per così dire, la raffinazione». Sono le parole che si dicono di una capitale, quale Milano è.

Leonardo Sciascia lascia in eredità al letterato e scrittore italiano d’oggi la sostanza. Una deontologia letteraria che è quella di Manzoni, il nostro padre; una genealogia invidiabile e luminosa: Manzoni e Stendhal (al secolo “Arrigo Beyle, milanese”), Savinio e Sciascia; l’esortazione alla dilettanza operosa in avversione alla noia della professionanza e l’inconsistenza; l’ammonimento alla fedeltà ai libri e gli autori che ci hanno scelto come lettori e così viceversa; l’invito a non dimenticare che letteratura è memoria e fuor di quella è vaniloquio; il pungolo a lavorare alle ragioni della letteratura e alla “felicità di fare libri”, oggi preclusa; l’indicazione dei luoghi sacri: la terra d’origine e Milano, il sogno Europa e Parigi.

Tutto il resto non ci riguarda.

Leonardo Sciascia, ”Fuoco all’anima. Conversazioni con Domenico Porzio“, Adelphi, 2021, 169 pagine, 13 euro

 

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