1969: nella Milano degli anni di piombo si consuma una delle pagine più buie e tristi della cronaca nera cittadina, la morte di Giuseppe Pinelli, per tutti Pino, ingiustamente accusato di aver preso parte alla strage di Piazza Fontana e poi morto durante l’interrogatorio, precipitato da una delle finestre della questura nella notte tra il 15 e il 16 dicembre. Sulla vicenda si è scritto e detto tanto: il premio Nobel Dario Fo ci ha basato una delle sue commedie più famose, “Morte accidentale di un anarchico” e, nel 2009, durante il Giorno della Memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi, l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano definì Pinelli la «la diciottesima delle vittime della strage di Piazza Fontana: vittima due volte, prima di pesantissimi e infondati sospetti e poi di un’improvvisa e assurda fine».
Il 9 dicembre, a cinquantadue anni da quel 1969, è uscito un nuovo volume per l’editore Milieu, “Pino, vita accidentale di un anarchico”, curato stavolta dalle figlie di Pinelli, Silvia e Claudia, da anni attive nel tenere viva la memoria sul periodo buio della storia italiana che è stato quello della strategia della tensione, e soprattutto del ricordo e della ricostruzione dell’immagine del padre: grande appassionato dell’antologia di Spoon River e di Topolino, che si era avvicinato al movimento anarchico dopo le prime esperienze di militanza antifascista. Pinelli era un attivista, una parola che all’epoca non si usava, ma che in ogni caso non avrebbe avuto un’accezione positiva: aveva partecipato alla fondazione del circolo anarchico Sacco e Vanzetti del Ponte della Ghisolfa ed era stato tra i sostenitori di una delle realtà editoriali della controcultura milanese, la rivista Mondo Beat.
La graphic novel “Pino, vita accidentale di un anarchico”, è stata curata dalle figlie insieme a Niccolò Volpato e Claudia Cipriani, già autori di un film dallo stesso titolo, le fotografie invece sono di Uliano Lucas. Questo libro vuole restituire un ritratto intimo e familiare di quello che fu, suo malgrado, il protagonista di uno degli avvenimenti cruciali di quegli anni, motore di una spirale di violenza che culminò poi con l’uccisione del commissario Luigi Calabresi, titolare insieme a Tonino Allegra dell’interrogatorio di Pinelli.
Un percorso doloroso per la famiglia, ma necessario, ci racconta Silvia Pinelli, che con la sorella ha la missione di ricordare la vicenda di Pino soprattutto per le nuove generazioni, continuando quella che era una vocazione del padre. «Lui faceva sempre da tramite tra le vecchie generazioni degli anarchici, quelli che avevano fatto la guerra di Spagna magari, e i giovani che si avvicinavano al circolo. Anche per questo aveva messo a disposizione la sua ciclostile per stampare il primo numero di Mondo Beat. Molte delle persone che si sono avvicinate a noi nel corso degli anni all’epoca erano giovanissimi e si ricordano di quando, avvicinandosi al movimento anarchico, avevano conosciuto Pino: la sua prima risposta di fronte alle loro idee rivoluzionarie era quella di metter loro in mano un libro da leggere».
Cosa ha portato lei e sua sorella a curare questa graphic novel?
Un giorno mia nipote è andata dalla mamma chiedendole di parlarle del Nonno Pino per un compito a scuola e lei le rispose di parlare dell’altro nonno. Mia nipote quindi è andata su internet ed è tornata piangendo e chiedendo di sapere cosa fosse successo veramente. Questo ci ha fatto capire l’importanza di raccontare la storia di mio padre per le generazioni future, della nostra famiglia, e per i giovani di oggi in generale. Ecco perché anche la scelta della graphic novel: un fumetto è un modo più accessibile per arrivare ai giovani.
Cosa volete trasmettere ai giovani con la storia di Pino?
Diciamo ci sono ancora delle criticità nell’anima società che si possono cambiare solo facendo prendere coscienza alle persone di certi meccanismi. Purtroppo mio padre è entrato nella storia uscendo da una finestra, e molte cose si sono venute a sapere dopo, è importante che i giovani si riapproprino della storia e della memoria di argomenti e avvenimenti che nei libri di scuola non vengono trattati o, se succede, si tratta di una disamina frettolosa e sommaria. Capire il contesto di quel periodo è importante per arrivare al cuore di certe rivendicazioni che, purtroppo, sono attuali ancora oggi.
A cosa si riferisce in particolare?
La fine degli anni Sessanta è stato un periodo di grandi speranze, in cui si sono innestati cambiamenti fondamentali della società, sui quali però in questi cinquant’anni non sono stati fatti molti passi avanti, anzi. Penso alla legge sull’aborto, che ancora oggi viene reso complicato alle donne, o alla tutela della salute dei lavoratori. Sono temi di cui si parlava cinquant’anni fa e sono temi di cui si parla ancora oggi, la stessa cosa succede relativamente al dibattito del disarmo della polizia. È dai fatti di Battipaglia del ‘69 che si chiede che venga messo un numero identificativo sulle divise dei poliziotti. Conoscere ciò che è stato è importante anche per affrontare le battaglie del presente e costruire quelle del futuro».