Ogni anno, da oltre trenta anni, decine di mostre in ogni parte del pianeta portano nel titolo il suo nome. Sono per lo più esposizioni “furbe” – Andy Warhol è un nome che “tira”, uno tra i più celebri del XX secolo – ma in realtà sono per lo più inutili e ripetitive.
Al Brooklyn Museum di New York ora però ne è arrivata una che complica la nostra visione del maestro pop: supera il luogo comune di Warhol pittore di lattine di zuppa o ritratti di Marilyn Monroe e rivela la forte influenza del cattolicesimo bizantino (che è altra cosa dall’Ortodosso) nel quale è cresciuto.
Un indizio del resto c’era già, ben noto e da tempo. L’opera più pagata di Warhol (105 milioni di dollari a un’ asta tenuta da Sotheby’s nel 2013) non è uno dei ritratti di una delle celebrities che Warhol ha sfornato durante la sua straordinaria carriera, ma un Silver Car Crash con cui l’artista esorcizza le paure che la sua biografia rivela costanti della sua vita. Robert Hughes (“American Vision”, 1997) uno dei più straordinari critici d’arte che la storia americana contempli non amava per niente Warhol, ma della sua produzione salvava proprio gli elementi più tragici e “mortiferi” come appunto i Car Crash e le Electric Chair.
In “Andy Warhol: Revelation” il Brooklyn Museum presenta un aspetto a lungo sottovalutato del suo lavoro: per tutta la vita Warhol – seppure in contraddizione con la sua esibita omosessualità – ha mantenuto alcuni dei rituali cattolici appresi da bambino. Figlio di immigrati dalla Slovacchia, Warhol è nato a Pittsburg (Pennsylvania) nel quartiere Ruska Dolina, dove negli anni trenta la chiesa di San Giovanni Crisostomo fungeva da centro di aggregazione per la popolazione operaia principalmente di origini carpatiche. Il ragazzino malaticcio e un poco “effemminato” frequentava regolarmente i servizi con sua madre, dove vedeva, tra le altre icone, dipinti degli apostoli San Giovanni, Sant’Andrea, San Tommaso e San Pietro.
Nella mostra al Brooklyn Museum, tra gli oltre cento oggetti presenti, ci sono anche alcuni prestiti provenienti da questo luogo. Warhol avrebbe anche avuto familiarità con le icone dal fondo dorato tipiche della tradizione bizantina, a cui vengono spesso associati i suoi dipinti su sfondo oro. L’esposizione include anche un delicato collage di foglie d’oro raffigurante un presepe, creato da Warhol negli anni ’50.
Qualche biografo tra i più noiosi (Blake Gopnik, “Warhol”, 2020) mette in dubbio che la sua fosse davvero una religiosità profonda. Si sarebbe trattato piuttosto di una sorta di “superstizione” collegata alla sua paura della morte. Ma che importa? Quanto fosse profondamente religioso Warhol non lo sapremo mai e in fondo non è importante. Warhol si recava periodicamente in chiesa anche durante gli anni fiammeggianti della Factory, faceva beneficenza, e qualche volta stava lì a distribuire pasti per i più poveri.
Quel che importa è che Warhol ha utilizzato i modi e i simbolismi della storia dell’arte cattolica, inquadrandoli nel contesto della Pop art. Per questo Andy Warhol: Revelation esamina temi come la vita e la morte, il potere e il desiderio, le immagini rinascimentali, le rappresentazioni e le duplicazioni di Cristo, il corpo cattolico e il desiderio queer. Anche questo non poteva mancare ovviamente negli Usa in questo momento dove i segni di questo dibattito tra l’élite intellettuale sono praticamente ovunque.
Warhol era ossessionato dalla vulnerabilità del proprio corpo, lo era diventato ancor più dopo aver subito un tentato omicidio con colpi di di arma da fuoco nel 1968 da parte della frequentatrice della Factory Valerie Solanas. Era del resto giunto ad occupare una posizione centrale nella cultura americana, anche trasformando il suo corpo poco attraente – la sua pelle brutta, i suoi parrucchini che indossava per mascherare la calvizie – in un marchio di fabbrica riconosciuto a livello internazionale.
Questa paura si manifesta ad esempio nella celebre immagine scattata nel 1969 da Richard Avedon – un primo piano del busto di Warhol, attraversato dalle cicatrici del suo intervento chirurgico dopo la sparatoria. Qui Warhol propone se stesso come una sorta di San Sebastiano, il martire cristiano che la comunità gay ha spesso eletto tra le icone più vicine alla propria sensibilità.
La fobia di Warhol per le malattie , l’imperfezione e il decadimento fisico hanno raggiunto l’apice nei suoi ultimi dipinti basati sull’”Ultima Cena” di Leonardo – l’ultima serie esposta prima della sua morte per arresto cardiaco il giorno dopo aver subito un intervento chirurgico alla cistifellea. Queste opere sono state esposte a Milano nel 1987, nel Refettorio delle Stelline con grande rumore proprio di fronte all’affresco “L’Ultima Cena” di Leonardo in Santa Maria delle Grazie – un evento rappresentato, a Brooklyn, da due dipinti di grandi dimensioni e da un campionario di riproduzioni a volte kitsch su cui Warhol li ha basati.
Va pure detto che Warhol non a mai avuto paura di criticare il ruolo che la Chiesa cattolica ha talvolta ricoperto nella sua storia, come provato dalla serie intitolata realizzata all’nizio degli anni ’80 che rende espliciti i collegamenti tra il crocifisso e altri strumenti di violenza.
Ma alla stessa Chiesa è comunque sempre rimasto legato come dimostra non solo la sua nota visita in Vaticano per conoscere Karol Wojtyla. Ma pure un’ opera assai meno conosciuta e del tutto eccentrica rispetto al suo stile più riconoscibile: un filmato realizzato per il Padiglione ecumenico sponsorizzato dal Vaticano nel 1969 per l’Esposizione Universale ufficiale di quell’anno a San Antonio. L’idea originale di Warhol finanziata dalla Chiesa cattolica, era quella di mostrare il sole che tramonta in varie località del paese. Il padiglione non fu mai completato ma nell’estratto di circa 15 minuti presente al Brooklyn Museum, si vede il sole che tramonta nell’Oceano Pacifico mentre la cantante Nico recita lentamente versi criptici sulla vita e la morte, la luce e l’oscurità.