Il 2021 è ormai al tramonto. È stato un anno difficile, impegnativo, complicato. Al tempo stesso, però, per le aziende italiane è stato un anno ricco di segnali positivi, che ci consentono di guardare al futuro con nuova fiducia e ragionevole speranza.
La pandemia ha impresso una fortissima accelerazione a molti cambiamenti già in atto nel mondo dell’economia e nell’intera società, sotto l’impulso dei paradigmi della sostenibilità e della circolarità.
In tempi estremamente rapidi, nei più diversi ambiti, ci si è trovati a fare i conti con nuove esigenze, nuove aspirazioni, nuovi valori, nuove necessità.
Il 2022 si configura caratterizzato da scenari profondamente mutati e ancora in ulteriore evoluzione, con molti cambiamenti che proseguiranno il proprio corso ed altri che cominceranno a produrre in modo ampio i relativi effetti.
Le imprese del nostro Paese, in questo panorama, hanno la possibilità di diventare – quasi inopinatamente – un modello di riferimento e di assumere posizioni di leadership su scala internazionale.
Questo perché alcuni tra i maggiori driver del cambiamento in fieri risultano in particolare sintonia, fortunatamente, con diversi elementi spiccatamente caratterizzanti le imprese dello “stivale”.
Un primo fondamentale elemento è dato dall’innovazione; ovvero, per dire meglio, un certo tipo di innovazione.
Le aziende, in questo delicato frangente, sono tenute a modificare con prontezza i propri prodotti, servizi e meccanismi, per adeguarsi tempestivamente alle nuove e mutevoli condizioni del mercato e della società post-Covid.
Si tratta di una sfida estremamente difficile, perché la situazione continua ad essere in rapida evoluzione, ragion per cui i parametri di riferimento si spostano in continuazione e le imprese appaiono chiamate a una vera e propria gara a inseguimento.
Ebbene, le aziende del nostro Paese hanno giusto le competenze, le caratteristiche, la struttura e le conoscenze per competere con successo in questa gara.
Il tessuto produttivo italiano, come noto, ha una morfologia estremamente peculiare ed è caratterizzato dalla presenza di pochi grandi gruppi industriali e da una elevata densità di piccole e medie imprese.
Nel bacino delle nostre Pmi, poi, emerge una tipologia di imprese tipiche della nostra economia, che già sono state definite multinazionali tascabili e che personalmente preferisco chiamare “imprese innovazionali”: si tratta di aziende di dimensioni relativamente contenute, con una forte carica innovativa, che operano con successo sui mercati internazionali, usualmente confrontandosi con competitor di gran lunga più grandi e strutturati.
Le imprese innovazionali, a causa delle proprie dimensioni non gigantesche, per alcuni aspetti naturalmente risultano penalizzate nel confronto con i grandi gruppi multinazionali: sono intuibili le difficoltà, ad esempio, sui versanti delle dinamiche finanziarie e delle economie di scala.
Esiste tuttavia anche un rovescio della medaglia, spesso non tenuto nella debita considerazione, nel senso che la snellezza e la leggerezza di queste aziende per altri aspetti si rivelano talvolta un valore aggiunto e un vantaggio competitivo.
Le imprese rientranti nella tipologia in esame, infatti, hanno abitualmente capacità straordinarie, non uguagliabili dai grandi e pesanti conglomerati multinazionali, nel reagire con bruciante velocità alle nuove richieste del mercato e nell’adeguare con reattività sorprendente la propria offerta alle variabili esigenze della domanda.
Queste aziende, dicevamo, si segnalano per una forte carica innovativa e naturalmente producono una innovazione coerente con le loro caratteristiche, la loro organizzazione e la loro attività.
Le imprese innovazionali, nella maggior parte dei casi, non presentano strutturati reparti di ricerca e sviluppo e raramente introducono novità di natura disruptive nel comparto di riferimento.
L’innovazione tipica delle aziende in oggetto, che rappresenta anche la cifra identificativa dell’innovazione made in Italy, è una innovazione incrementale, stratificata, gestita sotto forma di know-how, che nasce dal crivello del lavoro quotidiano, dal bisogno di rispondere prima e meglio alle richieste del mercato, dalla necessità di aggiudicarsi in modo ingegnoso nuove commesse.
In uno scenario così altamente instabile come quello nel quale ci stiamo muovendo, dove i parametri di riferimento cambiano senza sosta e i paletti intorno ai quali muoversi si spostano incessantemente, le aziende italiane trovano un habitat ideale per competere con successo, esprimendo al meglio la propria tipica e peculiare capacità di innovazione, fatta di rapidità e creatività nell’adeguare la propria proposta ad esigenze particolarmente specifiche e mutevoli.
Un secondo elemento, da prendere in considerazione per identificare le chiavi di lettura del panorama per il nuovo anno, è senz’altro la cultura.
Per molto tempo impresa e cultura hanno vissuto come su due pianeti diversi e parlare in uno di essi delle questioni dell’altro risultava fuori luogo: introdurre in azienda temi culturali suonava velleitario; suggerire alla cultura dinamiche imprenditoriali appariva quasi sacrilego.
Oggi non è più così e il rapporto tra impresa e cultura, oltre a rappresentare una strada obbligata, costituisce fonte di reciproche ispirazioni e sinergie.
Antonio Calabrò e Ferdinando Beccalli Falco, ne “Il riscatto”, hanno acutamente scritto che «impresa e cultura non fanno riferimento a due universi differenti, ma sono parte dello stesso mondo. Fare impresa, impresa industriale soprattutto, vuol dire investire e lavorare sui cambiamenti dei mercati, dei consumi, delle tecnologie produttive. Puntare sulla ricerca e sull’innovazione. Seguire le trasformazioni tecniche e sociali. E l’innovazione, parola chiave, carica appunto di forti valenze culturali e simboliche, riguarda tutto: le tecnologie, i materiali, i nuovi prodotti e i nuovi processi per produrli, le relazioni industriali tra le varie componenti del mondo dell’impresa e del lavoro, i linguaggi del marketing e della comunicazione. Cos’è tutto questo se non cultura scientifica, cultura economica, cultura d’impresa? Bisogna, in altri termini, passare dalla tradizionale visione di “impresa e cultura” a una visione più forte e carica di valori “impresa è cultura”».
La cultura, poi, rappresenta un prezioso e insostituibile medium tra l’impresa e il suo territorio, la sua comunità.
La pandemia, secondo alcuni commentatori, ha messo in una crisi grave, forse irreversibile, le logiche della internazionalizzazione e della globalizzazione.
Colgono meglio nel segno, probabilmente, coloro i quali sostengono che il covid ha condotto ad un ripensamento, ad una rimodulazione dei meccanismi tra l’azienda e l’esterno.
Torna nuovamente in auge, ripensato e rinnovato, il tradizionale concetto di glocal: le imprese non possono esimersi dal competere sui mercati internazionali, ma al tempo stesso sono chiamate a riscoprire e consolidare il rapporto con il territorio nel quale affondano le proprie radici.
Erica Rizziato ha scritto che «i processi di globalizzazione hanno rafforzato i processi di localizzazione e questo ha riportato un’attenzione sulle comunità locali, ma in una nuova prospettiva ben evidenziata dallo slogan “think globally, act locally”. Questa necessità di combinare il livello macro con il micro è stata evidenziata dalle politiche di decentramento, che riconoscendo l’inefficacia delle politiche imposte dall’alto, hanno permesso di declinarle secondo le necessità specifiche delle realtà locali. In questo senso il ruolo delle comunità locali viene considerato cruciale nel tradurre ed adattare le strategie sopranazionali, nazionali e regionali ai singoli territori attraverso il coinvolgimento degli attori locali. La mobilitazione delle risorse di un territorio, anche in termini di conoscenza e di relazioni sociali può permettere lo sviluppo di quel capitale sociale che è alla base dello sviluppo locale […] il concetto di comunità si evidenzia laddove lo sviluppo dei processi và di pari passo con lo sviluppo culturale degli attori locali che li realizzano».
Perché, come ha efficacemente detto Giuseppe Rao, «oggi i sistemi vincenti sono proprio quelli che valorizzano le specificità territoriali e poi si confrontano, coesi, con le sfide globali».
Le aziende, insomma, devono trarre la linfa, l’ispirazione e l’energia per proiettarsi su scala planetaria dai valori, dalle ambizioni e dalla storia delle propria comunità: la cultura del territorio.
Nel nostro Paese esistono le condizioni ideali per implementare e sperimentare innovative contaminazioni tra la sfera dell’impresa e quella della cultura, traendone gli elementi per alimentare una nuova stagione di progresso e sviluppo.
È un mio fermo e risalente convincimento, peraltro, che la cultura italiana sia il vero ed insostituibile ingrediente segreto di quel fenomeno che chiamiamo made in Italy, prezioso e trasversale valore aggiunto per le proposte delle nostre aziende sui mercati internazionali.
Ho avuto modo di scrivere, nel saggio “Italian soul”, che «è il nostro patrimonio culturale che rende l’Italia ancora un simbolo di eccellenza in ogni angolo del mondo, conferendo al nostro Paese quel gradiente di unicità e di irripetibilità che continua a riversare un rivolo di reputazione e di attrattività su tutto ciò che viene ritenuto italiano».
Ben più autorevolmente, ha detto del made in Italy Armando Massarenti: «Perché nonostante tutto il nostro brand va fortissimo? E di cosa è fatto il nostro brand? Vi sembrerà strano ma la parola che lo riassume è una sola: cultura. Noi siamo il Paese della cultura. Ovunque nel mondo».
Un terzo elemento, con il quale le nostre imprese – nello scenario post pandemia – sono inevitabilmente chiamate a confrontarsi, è dato dal sociale.
L’idea che l’azienda debba confrontarsi con la società circostante e assumere su di sé alcune responsabilità verso di essa non è certamente nuova: si tratta dell’ormai tradizionale concetto della Csr – corporate social responsability.
Ma anche da questo punto di vista il Covid ha fatto da catalizzatore rispetto un cambiamento che era già in atto, portando l’interazione tra l’impresa ed il sociale su un piano diverso e largamente inesplorato.
Il paradigma della sostenibilità, con le sue declinazioni sul versante del sociale, ha reso la Csr per qualche verso un concetto vecchio e superato: i concetti di restituzione, di riconoscenza, di giving back marketing, suonano ormai obsoleti.
Ha detto efficacemente Michele Tesoro-Tess: «La pandemia ha esasperato un trend che era già parte del business, ossia la necessità per le aziende di avere uno scopo nel mondo oltre a vendere i propri prodotti e servizi e a fare soldi. Tutto questo significa avere un ruolo sociale, essere un partner delle comunità locali dove si opera. Oggi le persone si aspettano un ruolo attivo da parte delle aziende e hanno ormai capito che fare impresa è molto più della vendita di un prodotto».
Le parole chiave, a me sembra, sono “ruolo sociale”.
Oggi l’impresa non può più rivestire un ruolo meramente ancillare nei confronti dei grandi fenomeni di trasformazione della società, collocandosi in una posizione laterale, quasi da osservatore neutrale, limitandosi poi a qualche sporadico intervento, tanto per dimostrare la propria sensibilità e carica etica.
Il mondo delle aziende, nella realtà contemporanea, è un attore a tutti gli effetti dei cambiamenti in corso, con un ruolo da protagonista per raggiungere, ai sensi dell’agenda 2030, gli “obiettivi universali, ambiziosi, globali, indivisibili e interconnessi, mirati a sradicare la povertà, combattere le disuguaglianze e le discriminazioni crescenti, promuovere la prosperità, sostenibilità, responsabilità ambientale, inclusione sociale, uguaglianza di genere e rispetto per i diritti umani, garantendo la coesione economica, sociale e territoriale e rafforzando la pace e la sicurezza”.
Le imprese non possono esimersi dal contribuire alla ricerca di una situazione di sostenibilità sociale; il che significa: tendere a condizioni di equità; eliminare le povertà; combattere le sperequazioni; rendere effettivo il diritto di ognuno ad esprimere le proprie potenzialità e partecipare in modo effettivo ai processi decisionali.
Orbene, sul tema dell’impresa come strumento di evoluzione sociale, il nostro Paese può vantare conoscenze profonde ed esperienze risalenti nel tempo, mentre spesso altrove su questi temi si comincia a ragionare solo adesso.
Rispetto alle funzioni sociali dell’impresa, una data storica – a livello internazionale – viene considerata il 19 agosto 2019.
Quel giorno, la business roundtable, un influente think tank di circa duecento Ceo di aziende del Nord America, presieduto da Jamie Dimon, numero uno di JP Morgan Chase, ha pubblicato una innovativa ed eclatante dichiarazione programmatica.
In questo documento si esplicitava che il purpose dell’impresa non deve essere solo la produzione di utili per gli shareholder, ma anche e soprattutto quello di servire tutti gli stakeholder, vale a dire i clienti, i lavoratori, i fornitori, le comunità.
Per la business roundtable si è trattato di un autentico e radicale cambiamento di rotta, considerato che nel 1997 l’ente aveva sposato in pieno la linea della scuola di Chicago, in base alla quale il fine unico dell’azienda consiste nel creare profitto per gli azionisti.
Una simile ed eclatante inversione a u, secondo alcuni dal significato quasi rivoluzionario, in effetti non ha fatto altro che portare la comunità internazionale su un percorso lungo il quale l’Italia si era avviata da tempo.
La nostra scuola di economia aziendale, in particolare con Gino Zappa e Carlo Masini, già nei primi decenni del Novecento aveva approfondito i rapporti tra impresa e stakeholder, mettendovi al centro – in modo davvero innovativo, per il contesto culturale del tempo – i concetti di solidarietà, altruismo e responsabilità.
Poi è arrivata la grande ed emblematica figura di Adriano Olivetti, il quale intorno alla metà del secolo scorso – in vertiginoso anticipo sui tempi – immaginò e sperimentò un ruolo inedito per l’impresa: «La fabbrica non può guardare solo all’indice dei profitti. Deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia».
Le aziende del nostro Paese, forti dell’insegnamento olivettiano e delle esperienze nel tempo maturate sul campo, dal punto di vista dell’interazione con il sociale possono davvero diventare un modello di riferimento su scala planetaria.
In conclusione, guardando al nuovo anno, nel delineare il quadro dei meccanismi che determineranno – a livello nazionale e internazionale – la competitività delle imprese, si possono individuare tre elementi cardine: innovazione, cultura, sociale.
Questo significa che siamo di fronte ad una congiuntura potenzialmente di straordinario favore per il nostro Paese, perché in ognuno di questi ambiti – per motivi diversi – le nostre imprese hanno la possibilità di distinguersi ed eccellere.
Innovazione, cultura, sociale: ics. Che la formula X sia foriera di un 2022 di successi, per le aziende italiane e per l’intero Paese.