Get the job doneTre indizi fanno pensare che questo sarà l’ultimo natale da premier per Boris Johnson

La sconfitta alle suppletive di North Shropshire, le dimissioni del ministro per la Brexit David Frost e una misteriosa rimozione dal gruppo WhatsApp dei Tories fanno presagire tempi bui per il primo ministro. Ma per farlo dimettere servono almeno 54 lettere di sfiducia dei suoi parlamentari. Per evitare il peggio BoJo pensa a un rimpasto per il 2022

LaPresse

Per un governo eletto sullo slogan «Get Brexit done», il ministro alla Brexit è una delle cariche più importanti, almeno a livello simbolico. Quel ministro si chiama lord David Frost, un nome ricorrente nella saga, e si è dimesso in polemica con la linea dell’esecutivo e, quindi, con Boris Johnson. È un altro colpo durissimo per un premier in crisi, alle prese con un dissenso interno sempre più evidente, quasi cento deputati hanno votato in aula contro il piano per contenere i contagi da coronavirus, e azzoppato dalla sconfitta alle suppletive di North Shropshire. L’unica notizia positiva, la tregua con l’Unione europea sull’Irlanda del Nord, rischia di alienargli le frange più euroscettiche del partito e della base. 

Frost non è sceso nello specifico sulle motivazioni dell’addio, che probabilmente verrà formalizzato a gennaio, più di quanto lo permetta la lettera di una pagina e mezza spedita a Downing Street. Ha contestato la «direzione di marcia» di Downing Street, con obiezioni finanziarie, in favore di «un’economia imprenditoriale, meno regolamentata, a bassa tassazione» perché «tre secoli di storia» avrebbero dimostrato che questa ricetta permette alle nazioni di crescere. In pratica, un mantra dei conservatori. E a loro indirizzato. Se plaude alle riaperture della scorsa estate, Frost è scettico sulle nuove restrizioni, nonostante la situazione pandemica resti critica.

In queste righe, l’ex ministro condensa di fatto i punti cardine del malcontento dei Tories, refrattari alle politiche di spesa pubblica del premier, alla sua svolta ecologista e, soprattutto, al passaporto vaccinale, la versione britannica del green pass. Era il vasto programma di Johnson dal podio del congresso di Manchester: la scommessa lanciata allora non sembra aver pagato. Gli scandali hanno fatto il resto, con l’indice di apprezzamento ai minimi storici e il sorpasso dei laburisti nei sondaggi. 

Persino l’apertura della commissione europea, pronta a riscrivere parti del protocollo sull’Irlanda del Nord per consentire l’approvvigionamento di farmaci salvavita, rischia di contribuire ad appannare la fama di antagonista di Bruxelles del premier. In cambio, infatti, il Regno Unito ha rinunciato (almeno per ora) alla richiesta di sottrarre la regione dalla competenza della Corte di giustizia dell’Unione europea. Londra continua a preferire l’arbitrato internazionale per risolvere eventuali dispute, ma ora è disposta a riconoscere il ruolo della Curia per quanto riguarda i casi di legislazione europea. Sul piano interno, i «Brexiteers» l’hanno vissuta come una resa. 

Medicine a parte, però manca ancora un accordo sui generi alimentari. Dopo la moratoria, queste merci sarebbero esposte a controlli doganali e dovrebbero sottostare agli standard igienici comunitari per continuare a venire esportate dall’isola madre all’Ulster. La commissione propone di esentare i prodotti più iconici, come le salsicce al centro della «guerra» paventata la scorsa estate. Le delegazioni si rivedranno nel 2022. Arrivano in questo contesto le dimissioni di Frost, che nelle trattative con l’Ue ha mantenuto una coerenza che dal continente somigliava a ostruzionismo e sordità, ma in patria è stata apprezzata come intransigenza.

La sua mossa peggiora un clima interno al partito già molto teso. La ministra della Cultura, Nadine Dorries, è stata rimossa da un gruppo WhatsApp con più di cento deputati conservatori, per aver scritto un messaggio in difesa di Johnson dove invitava a maggiore lealtà da parte di chi gli deve il seggio. «Quando è troppo è troppo», la risposta di chi l’ha espulsa dalla chat, cioè Steve Baker. Baker è un ex presidente dello European Research Group (ECR), una lobby eurofobica che durante la legislatura precedente è diventata un centro di potere. Ha contribuito alla caduta di Theresa May, Johnson ha bisogno del suo appoggio per restare in sella.

Si può dire che i «Brexiteers», cioè i favorevoli all’uscita dall’Ue, siano gli azionisti di maggioranza dei successi di Johnson. La sua sopravvivenza politica dipende da questa fascia della popolazione. I conservatori non avevano mai perso a North Shropshire, almeno non negli ultimi 120 anni. Sono crollati nelle urne del 34% rispetto al 2019, ma il dato veramente preoccupante per il primo ministro è che nel 2016 il collegio aveva votato circa al 60% per il «Leave». Tradotto: forse un feudo conservatore lo è ancora, ma Johnson ha perso il supporto degli elettori più euroscettici. 

Il Regno Unito è quel paese straordinario dove il destino del primo ministro può dipendere da una byelection. La topografia di minuscoli collegi sparsi per il paese può decidere le sorti di un governo, o di una leadership. «Boris Johnson, la festa è finita», ha detto Helen Morgan, la candidata libdem protagonista della vittoria. Potrebbe aver ragione. Il premier si è assunto la «totale responsabilità» della disfatta. «Un altro strike e sei fuori», gli hanno detto dal partito. I giornali inglesi hanno parlato di «terremoto politico», di «umiliazione» e di «svolta decisiva». 

Non è mai (solo) la votazione in sé a essere capitale. Il sistema elettorale britannico, l’uninominale secco, premia la credibilità locale: i parlamentari restano in carica anche decenni, sulla base della relazione coltivata con la comunità. Owen Paterson ha rappresentato North Shropshire per 24 anni, si è dimesso per un caso di lobbying (faceva pressioni sui ministri per conto di aziende che lo pagavano 112 mila sterline l’anno). Le suppletive sono state convocate per questo, la notizia ha aperto un dibattito pubblico sui secondi lavori dei deputati. Quando le dinamiche nazionali entrano in questo microcosmo vicino agli elettori, con un cambio di segno, ci sono tutti i presupposti perché l’appuntamento diventi un referendum e come tale venga interpretato sia dai media sia dalla politica. 

Lo è stato. Tipicamente, i conservatori ci mettono mesi per detronizzare un capo (citofonare May). Servono 54 lettere di sfiducia tra i parlamentari Tory per abbattere Johnson. A chi ne ha sottoscritta una, riferisce il Times, gli ufficiali del protocollo avrebbero risposto: «La mettiamo insieme alle altre». L’uscita di Frost priva Boris di un alleato importante. L’ex ministro degli Esteri, e avversario nella corsa per la leadership del 2019, Jermey Hunt avrebbe ripreso i contatti con il suo team. Per evitare la successione, il primo ministro potrebbe tentare la strada di un rimpasto di governo a inizio 2022. Potrebbe non bastare. 

Il travaso di voti subìto dai conservatori a North Shropshire è il secondo peggiore della loro storia, preceduto solo da quello di Christchurch nel 1993, quando ne fece le spese John Major. A Boris Johnson è sempre stato perdonato tutto, anche all’interno del suo partito, per via di uno straordinario ascendente elettorale. Tanto che il suo indice di gradimento, secondo gli esperti, non assomiglia a quello di un politico, ricorda quello di un influencer. Ha riportato i conservatori su percentuali che non si vedevano dall’era della Thatcher. Due anni dopo, gli scandali hanno incrinato il rapporto fideistico con il «paese reale». Ma, se vengono meno quell’aura, e soprattutto quei voti, cosa resta al primo ministro?

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