ScenografieUn “Doppio sogno” al Piccolo Teatro Studio Melato

Fino al 23 dicembre a Milano si può visitare la Vienna degli anni Venti della “Traumnovelle” di Arthur Schnitzler, grazie alla trasposizione teatrale messa in atto dal giovane Riccardo Favaro, con la regia di Carmelo Rifici. Uno spettacolo da non perdere

Piccolo Teatro / Masiar Pasquali

Inoltrarsi in una notte viennese alla ricerca dell’equilibrio tra realtà del sogno e realtà della veglia, in un’opera che è riflesso intimo e sociale del nostro presente. A Milano si può, fino al 23 dicembre, semplicemente varcando le porte del Piccolo Teatro Studio Melato.

Vienna. Anni ’20 del ventesimo secolo: Arthur Schnitzler (classe 1862) scrive “Traumnovelle”, noto in Italia come “Doppio sogno”, romanzo breve che indaga i moti torbidi e conturbanti di Fridolin e Albertine, una giovane coppia borghese alla scoperta delle proprie pulsioni fra catarsi erotiche e notti insonni all’insegna della vertigine e dell’auto-distruzione.

Milano. Sempre anni ’20, ma un secolo dopo: Riccardo Favaro (classe 1994), riscrive il romanzo e lo fa per il Piccolo Teatro di Milano, dove va in scena con la regia di Carmelo Rifici. La trasposizione teatrale di “Doppio sogno” nasce come spettacolo per l’ultimo corso della Scuola di Teatro del Piccolo, ed è attraverso l’interpretazione fresca e dirompente dei suoi giovani attori che entra nel cuore, nella mente e nella pancia degli spettatori.

L’ampio spazio scenico del Teatro Studio Melato permette alla rappresentazione di godere di ampio respiro e, malgrado le tematiche opprimenti che vengono messe in scena, non si ha mai la sensazione di soffocare, come invece rischiano di fare i protagonisti della vicenda.

La scenografia è essenziale, ma non per questo scarna: la mobilia che dovrebbe arredare le case nelle quali l’azione prende vita è tutta bruciata. Sedie, toelette, letti e tavoli: tutto è annerito, tutto minaccia di essere prossimo al crollo. È la metafora di un necessario cambio di paradigma nella concezione dei rapporti coniugali e della relazione con il proprio subconscio, è uno strumento visivo d’impatto che aiuta lo spettatore a calare l’intera rappresentazione in una costante incertezza e nel senso di una imminente e ineluttabile disgregazione.

Un sentimento che si fa concreto anche nella scelta di “raddoppiare” i personaggi: non c’è mai un solo Fridolin o una sola Albertine. In scena la scissione della psiche diventa tangibile: quello che diciamo o quello che facciamo non sempre (o quasi mai) corrispondono a ciò che pensiamo o a ciò che faremmo e in Doppio Sogno i moti dell’Ignoto interiore si fanno carne e si fanno parola, fino a prender corpo in almeno due attori per personaggio contemporaneamente in azione.

In tutto questo tre grandi specchi, due laterali e uno sospeso, circondano la scena e le donano profondità moltiplicando lo spazio e i personaggi in una potenziale infinità dove il tutto viene simbolicamente ripetuto, narrazione visiva di una realtà sfaccettata .

Questo caleidoscopio di pensieri, parole e azioni è da Schnitzler stesso astutamente ambientato nel periodo impulsivo e grottesco del Carnevale. È così che entra in scena il simbolo del teatro per eccellenza: la maschera, filtro che, celando, mette in mostra e, schermando l’identità, diventa facilitatore di una comunicazione più diretta e libera, cura a tutte le storture relazionali messe in scena in “Doppio sogno”.

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