Quella di Eugène Labiche è una commedia che fa leva sull’ingegno. Diverte grazie alla brillantezza della sua costruzione, allo spirito intrinseco della storia, alla grazia delle sue trovate. Per il celebre attore Massimo Dapporto “Il delitto di via dell’Orsina”, lo spettacolo che porta in scena al Teatro Parenti di Milano dal 9 al 23 dicembre con la regia di Andrée Ruth Shammah «è breve come durata, ma si presenta come un condensato di intelligenza, garbo e comicità».
L’opera, scritta dal commediografo francese ottocentesco, dura poco più di un’ora, ma si tratta «di un’ora faticosissima: non per il pubblico, ma per noi attori. È un lavoro che non concede sosta, senza pause», spiega a Linkiesta. Ma che racchiude al suo interno domande, temi fondamentali – come la colpa, la responsabilità individuale, la stessa percezione di sé – declinate secondo le regole della commedia. I due personaggi principali, che si svegliano dopo una serata di cui non ricordano nulla, scoprono di essere, forse, gli autori di un sanguinoso delitto avvenuto la notte precedente. Le domande, i dubbi e i rimorsi si affacciano uno di seguito all’altro, in ritmo senza respiro di trovate e invenzioni.
«È la prima volta che lavoro con Andrée Ruth Shammah. Ed è la prima volta che lavoro con un regista che è davvero un regista. Shammah non lascia niente al caso, lavora con cura su tutti i dettagli, è precisissima, puntigliosa. Ma anche affettuosa». E soprattutto «è aperta ai cambiamenti. Lavorando con noi, ha modificato in corso d’opera alcune sue idee, soprattutto sui personaggi. Si può dire che abbia aggiunto qualche colpo di scalpello in più al suo lavoro».
La metafora non è casuale: la messa in scena, come era stato ricordato in conferenza stampa dalla stessa Shammah, è il frutto di un lavoro certosino «di artigianato», un modo, spiega Dapporto, per indicare «che il prodotto non esce come da una macchina, ma da un lavoro di cura di ogni dettaglio – e anche in questo caso parlo più del lavoro del regista, più che quello di noi attori». Nel caso di Labiche è importante sottolineare la portata comica dell’opera, che non richiede sottolineature nell’interpretazione dei singoli passaggi. «Io, che in teatro mi considero, di carattere, un comico (anche se nelle fiction in televisione impersono ruoli più seri) ho dovuto spegnere molte battute, lasciare che facciano ridere da sole. Questo l’ho imparato – meglio, l’ho accettato – proprio grazie alla regia di Shammah».
Si ride, insomma, grazie alla forza del testo messo in scena. «Sulle battute c’è sempre un’alchimia strana. Spesso, durante le prove ridiamo o ci aspettiamo risate su alcuni passaggi, mentre il pubblico ride su altri. È sempre una sorpresa, qualcosa di imprevedibile. Che ci fa capire come il pubblico sia anche un lui un personaggio teatrale, è il vero referente del nostro lavoro» e a suo modo, al momento della messa in scena, «è anche lui un attore». Senza pubblico, del resto, il teatro non esiste.
La scelta di Shammah di portare in scena Labiche non è casuale. È quasi un manifesto: l’opera è esempio di una comicità ormai rarissima, «che scatta grazie all’intelligenza delle idee e alla collaborazione dello spettatore». Rispetto a quello che si vede è in controtendenza. «Io sul tema ho esperienze che sono più profonde della mia età. A partire da quello che faceva mio padre, ho visto come la comicità si sia trasformata negli anni, anche scadendo. Qui, invece, ho ritrovato la stessa classe di quegli anni, senza turpiloquio ma con eleganza. Non calchiamo la frase, non facciamo ammiccamenti, la comicità che scatta è quella della trama, del testo stesso». E che rispetto all’epoca presente, è quasi una rivoluzione.