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Un secolo fa la concentrazione di potere da parte delle aziende private era intesa come potere economico. Chi le possedeva esercitava un’autorità che si basava sui diritti di proprietà. E si intendeva che i danni antidemocratici che questa concentrazione economica comportava ricadessero sulle persone, nel loro ruolo di lavoratori, di consumatori e di concorrenti.
Decenni di contese e di azioni collettive hanno infine prodotto, per lo meno in molte società, non soltanto delle leggi anti-trust ma anche (e questa è la cosa più importante) delle carte dei diritti dei lavoratori e dei consumatori, delle leggi che proteggono costoro in modo che siano meno vulnerabili e delle istituzioni incaricate di applicare e gestire queste norme. Per quanto tutte queste iniziative mantengano ancora grande importanza, non ci possono però proteggere dai nuovi pericoli che dobbiamo affrontare.
Il potere delle aziende private non è più solo economico, ma anche sociale. Io ho definito le forme economiche che stanno alla base di questo potere “capitalismo della sorveglianza” perché mantengono elementi centrali del capitalismo tradizionale – la proprietà privata, la quotazione in Borsa, la crescita e il profitto – ma non potrebbero esistere senza le tecnologie proprie del XXI secolo e delle relazioni sociali improntate alla sorveglianza.
Metodi occulti di osservazione divorano le esperienze private e le trasformano in dati sui comportamenti. Con un passaggio rapidissimo questi dati, che sono generati dalle persone e che sono stati acquisiti in modo discutibile, sono immediatamente reclamati come “proprietà dell’azienda” e possono quindi essere utilizzati per aiutare la produzione e la vendita.
Questi dati possono essere elaborati per fare previsioni sui comportamenti umani e sono venduti a clienti che operano in un nuovo tipo di mercato in cui si commercia in informazioni che aiutino a individuare in anticipo quali possano essere i comportamenti delle persone. È un mercato delle materie prime con futures umani.
I danni sociali e antidemocratici prodotti da queste operazioni non si limitano a colpire gli individui nel loro ruolo economico di lavoratori e consumatori. No, colpiscono anche gli utenti. Questa è una nuova categoria umana che comprende tutti noi, in ogni momento e in ogni luogo.
La nostra è una civiltà dell’informazione ancora giovane che non ha ancora trovato la sua collocazione in ambito democratico, perché i danni sociali che stiamo affrontando non possono essere infilati in una scarpetta legale da Cenerentola novecentesca.
Per cui ora siamo noi che procediamo nudi e indifesi, noi che siamo senza diritti, senza leggi e senza istituzioni create appositamente per guidarci nel nostro secolo digitale in nome della “democrazia”.
In una civiltà dell’informazione c’è anche un ordine sociale derivato dalle questioni essenziali della conoscenza, dell’autorità e del potere che si basano sul possesso di dati. E se non ricordate questo, tenete allora a mente tre domande determinanti: Chi sa? Chi decide chi sa? Chi decide chi decide chi sa?
Oggi le aziende del capitalismo della sorveglianza, e in primo luogo i giganti tech, detengono le risposte a ciascuna di queste domande. Non abbiamo votato queste aziende perché governassero. Ma, grazie alla forza derivante dalla loro rivendicazione dei diritti di proprietà, gli imperi privati della sorveglianza hanno di fatto compiuto un golpe epistemico e antidemocratico.
Con questo intendo una rivoluzionaria presa del potere, con cui si sono appropriati del sapere e degli strumenti per l’acquisizione del sapere. I giganti tech decidono che cosa si sa, chi può saperlo e con quale obiettivo. I danni sociali conseguenti a questa rivoluzione lasciano i legislatori e l’opinione pubblica continuamente disorientati dai titoli quotidiani dei giornali.
La nostra comprensione, inoltre, è ostacolata da errori di categorizzazione. I danni sociali – come la totale distruzione della privacy che è avvenuta negli ultimi vent’anni oppure la disinformazione oppure la polarizzazione del dibattito oppure i flussi dell’informazione che vengono alterati in modo negativo dalla rimozione dei fatti e dalla faziosità oppure la modificazione dei comportamenti delle masse oppure un potere che non deve rendere conto a nessuno – vengono tutti incasellati e trattati come fenomeni distinti e questo ci lascia davanti a un groviglio di disorientamento, frammentazione e confusione.
Finché osserviamo separatamente questi danni come se fossero problemi distinti che non hanno a che fare gli uni con gli altri, non potremo mai giungere a una soluzione. Ma se osserviamo il capitalismo della sorveglianza come un ordine istituzionale rivoluzionario, possiamo trovare una via per uscire dalla nebbia.
Questa istituzione travalica i confini degli individui, delle associazioni, dei settori, delle comunità, delle società e delle nazioni creando una nuova intermediazione virtuale di ogni attività umana attraverso architetture digitali, device, prodotti, servizi e flussi di informazione. Il capitalismo della sorveglianza, come tutte le istituzioni, si riproduce da solo: tutte le azioni fluiscono verso l’auto-estensione e l’auto-riproduzione e non importa quanto, e quanto ardentemente, imploriamo e supplichiamo i singoli leader affinché, per favore, cambino le cose.
L’economia della sorveglianza non è una conseguenza inevitabile delle tecnologie digitali. Il capitalismo della sorveglianza non è un’azienda o una persona. Il capitalismo della sorveglianza è la gabbia di ferro dell’era digitale.
E, mentre la democrazia dormiva, gli è stato consentito di possedere, manovrare e mediare l’ambiente digitale. Ora tutte le strade verso la partecipazione economica e sociale conducono attraverso il terreno istituzionale del capitalismo della sorveglianza e tutto ciò, in questi anni di pestilenza globale, non ha fatto che crescere violentemente di intensità. L’istituzione economica del capitalismo della sorveglianza è lo scenario unificato davanti al quale i danni antidemocratici che fronteggiamo si stagliano non come tanti fenomeni isolati ma come effetti, relazionati fra loro, di una sola causa.
L’epicentro è un processo unico che si è realizzato in quattro passaggi e ognuno di questi passaggi sviluppa, condiziona e costruisce automaticamente il successivo.
Il primo passaggio è fondativo: l’enorme raccolta occulta di dati generati dagli esseri umani. Tutto si basa su questo.
E, naturalmente, questo conduce al secondo passaggio, che è l’imprevista e antidemocratica concentrazione di conoscenza sulla base di una nuova e sorprendente forma di disuguaglianza sociale, determinata dalla differenza tra quello che io posso conoscere e ciò che può essere conosciuto su di me.
Il terzo passaggio è il punto in cui il possesso “proprietario” della conoscenza si trasforma in potere e diventa un’arma per la previsione dei comportamenti e per l’individuazione dei target, producendo danni sociali che vanno dalla modificazione su enorme scala dei comportamenti a un diffuso caos economico ed epistemico, mentre un’informazione alterata viene amplificata da macchine che sono studiate per massimizzare la raccolta di dati e migliorare le previsioni.
Alla fine, il quarto passaggio è il momento in cui queste condizioni vengono sfruttate con un’esibizione sempre più aggressiva di dominio epistemico, mentre gli imperi aziendali della sorveglianza competono ormai con la democrazia sui diritti fondamentali e sui principi legali su cui essa si fonda. E lo fanno usando a proprio vantaggio il controllo assoluto e il potere totale che hanno su sistemi e infrastrutture di informazione di vitale importanza.
Lo scopo è allontanare le persone dai governi, sostituire la società con sistemi computazionali e installare un governo computazionale al posto della democrazia. Nell’era digitale il capitalismo avrebbe potuto prendere molte forme diverse.
Il problema è che le democrazie liberali in tutto il mondo hanno fallito nella costruzione di una visione politica del secolo digitale coerente e capace di rendere più solidi i principi e i sistemi di governo democratici.
Di contro, i cinesi hanno imparato come progettare e sviluppare tecnologie digitali capaci di rendere più solido il loro sistema di governo autoritario e questa strategia è diventata centrale nella loro politica interna ed estera. Il fallimento dell’Occidente ha lasciato un vuoto e questo vuoto è stato rapidamente occupato dal capitalismo della sorveglianza. Il risultato è che la democrazia si trova schiacciata da una pressione che solo la democrazia stessa può alleviare.
La democrazia è il solo ordine costituzionale che ha l’autorità, la legittimazione e il potere per contrapporsi e cambiare il corso delle cose. Se questo decennio cruciale del secolo digitale sta per raggiungere il suo culmine, e io credo che lo stia raggiungendo, allora l’unica soluzione possibile sembra essere questa: una controrivoluzione democratica.
Per essere chiari, questa è una battaglia per l’anima della nostra civiltà dell’informazione. Ora tutto dipende dalla politica. Abbiamo bisogno di un dibattito e di una collaborazione transnazionali in cui ciò che ci siamo rasseganti a considerare come inevitabile, definitivo, impossibile da mettere in discussione e troppo potente da combattere si mostri alla fine per quello che è veramente, un’invenzione umana del tutto contingente e una violazione dei più basilari principi della domanda e dell’offerta.
Questo nuovo dibattito riconosce che i giganti del settore tecnologico non sono i pilastri scintillanti dell’imprenditoria e dell’innovazione, ma piuttosto dei monopolisti spietati e astuti le cui aziende da miliardi di dollari si basano su macchine dannose per la società che hanno perfezionato la raccolta illecita di dati e la distruzione universale della privacy e che ora sono in procinto di distruggere i substrati sociologici e psicologici che sono le fondamenta stesse su cui poggia la democrazia. E tutto ciò lascia “noi, il popolo” come spettatori impotenti della demolizione delle istituzioni fondanti della società.
Per quanto riguarda l’opinione pubblica, i dati degli ultimi anni hanno in effetti mostrato una notevole perdita di fiducia nei confronti del capitalismo della sorveglianza. Lo vediamo nelle grandi rilevazioni demoscopiche, lo vediamo nella scontentezza delle persone che lavorano nel settore tecnologico, alcune delle quali cambiano anche lavoro, lo vediamo nelle analisi degli studiosi e nelle indagini giornalistiche.
Un primo elemento viene da un grande sondaggio americano pubblicato a metà dello scorso settembre. Quando esplose la diffusione del Covid, nel 2020, l’ex ceo di Google Eric Schmidt aveva sostenuto, parlando con la stampa, che la pandemia avrebbe insegnato agli americani a essere “un po’ grati nei confronti delle potenti aziende tecnologiche”. Ma, secondo questo sondaggio una straordinaria percentuale di cittadini americani, il 93 per cento, si è detto d’accordo sul fatto che dovrebbe essere illegale per le aziende private la raccolta di dati sulle persone senza il loro consenso.
Questo è un colpo al cuore del capitalismo della sorveglianza. Proprio l’opinione pubblica, perlomeno in America, dove naturalmente siamo arrivati tardi alla festa, ci chiede di ridefinire come “furto” la raccolta illecita di dati, che è il fondamento su cui si basa il potere illegittimo del capitalismo di sorveglianza.
Il nostro compito come attivisti, studiosi, giornalisti e leader politici deve essere quello di sostenere e mobilitare questa ondata di consapevolezza pubblica. Anche i legislatori hanno iniziato a mostrare il loro coraggio sentendosi spalleggiati dall’opinione pubblica e sono diventati più insistenti nel chiedere che anche il digitale sia costretto a vivere nella casa della democrazia.
L’Europa continua a guidare il mondo. La legge sui servizi digitali, la legge sui mercati digitali e le proposte per una governance democratica dell’intelligenza artificiale iniziano a collocarci su una traiettoria democratica. Non forniscono la soluzione definitiva.
Quello che forniscono, tuttavia, è esattamente ciò di cui abbiamo bisogno: un nuovo inizio che vincoli la raccolta dei dati al rispetto dei diritti fondamentali e l’uso dei dati a un servizio pubblico. Gli attuali dibattiti parlamentari, gli emendamenti e le discussioni negli Stati europei sono tutti elementi di un’emergente visione democratica.
E lo stesso spirito sta finalmente prendendo vita anche negli Stati Uniti. Al Congresso ci sono dozzine di proposte attraverso le quali si interromperebbero o addirittura si proibirebbero alcuni aspetti chiave del capitalismo della sorveglianza. E si sta formando un gruppo sempre più grande di politici che hanno una notevole conoscenza dell’economia della sorveglianza.
In linea con quel 93 per cento di cittadini americani che metterebbero al bando la raccolta occulta di dati, ora su entrambe le sponde dell’Atlantico abbiamo politici e cittadini che stanno convergendo sull’idea di vietare il primo e più visibile prodotto che si basa sulla raccolta illegittima di dati, il surveillance advertising, e cioè la pubblicità profilata grazie all’utilizzo di queste informazioni. È una proposta che soltanto pochi anni fa sarebbe stata considerata impensabile.
Nel marzo 2021 i deputati americani Anna Eshoo e Jan Schakowsky hanno annunciato che stavano lavorando su un progetto di legge per vietare il surveillance advertising. E, in giugno, l’europarlamentare Alexandra Geese e la deputata americana Lori Trahan hanno partecipato a un dibattito pubblico sulla proibizione della pubblicità basata sulla raccolta di dati. In quello stesso mese, circa cinquanta associazioni della società civile hanno consegnato al Parlamento europeo un documento in vista del dibattito sugli emendamenti alla legge sui servizi digitali.
Questa dichiarazione, che nel frattempo è stata firmata da circa cento organizzazioni, chiede la fine del capitalismo della sorveglianza, partendo dal divieto di surveillance advertising. E in settembre il Financial Times ha scritto che si sono nuove proposte da parte della Commissione europea per introdurre regole più severe che limitino il potere del microtargeting.
Questo tipo di convergenza transnazionale tra cittadini e politici può mantenere le promesse per il prossimo decennio, invertendo finalmente il corso che la nostra civiltà ha preso e affermando che non esiste un posto come il cyberspace né alcun altro “luogo” che si possa sottrarre alle regole e alle leggi che regolano la nostra società e che dobbiamo fare quello che le nostre democrazie hanno sempre fatto per affrontare le concentrazioni antidemocratiche di potere: approvare delle leggi.
Dobbiamo approvare delle leggi che proteggano e promuovano i diritti dei molti contro gli interessi economici dei pochi. Noi affermiamo che il nostro destino non è diventare una distopia basata su sorveglianza, controllo e certezze ingegnerizzate a vantaggio dell’altrui ricchezza e potere. Noi affermiamo che non abbiamo dimenticato e non dimenticheremo che ogni generazione è chiamata a lottare per prolungare la durata della migliore idea che l’umanità abbia avuto e per darle nuova vitalità.
©️2021 The New York Times Company and Shoshana Zuboff
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