Dietro a ogni oggetto cʼè un essere umano. Anzi «behind every object, there’s a human». Perché la moda parla un linguaggio internazionale e lʼetica pure. È così che inizia il racconto che lega a doppio filo Sartoria San Vittore di Milano e la Cooperativa sociale Alice, un progetto finalizzato a costruire una società inclusiva per restituire centralità alla persona e sostenere lo sviluppo attraverso lʼartigianalità del made in Italy e le filiere etiche, riqualificando a livello professionale i detenuti delle carceri di San Vittore, Bollate e Monza.
Ma chi si immagina una realtà di borsine di canapa e gadget low cost si sbaglia di grosso. Sartoria San Vittore è unʼimpresa a tutti gli effetti che parla un linguaggio sostenibile ed è certificata Fair Trade, che ne garantisce la filiera etica. Ha quattro laboratori, due di sartoria allʼinterno delle carceri di San Vittore e di Bollate, uno esterno in via Barilli a Milano, e uno di pelletteria a Monza, che producono conto terzi manufatti per aziende del calibro di Porro, Cappellini, Chloè, Alberta e Marrionnaud Paris.
Attiva dal 1992 Alice ha aiutato più di 750 donne emarginate a raggiungere lʼindipendenza economica donando loro una nuova opportunità attraverso il lavoro. Con allʼattivo più di 11.230 ore di formazione e un dato molto interessante: è dimostrato come lʼefficacia dello strumento “lavoro” abbassi la recidiva al crimine fino al 18%. «Delle 750 donne che sono passate di qui nel corso degli anni, solo 3 sono tornate in carcere. Le altre si sono reinventate, alcune hanno addirittura aperto il loro laboratorio. Siamo una realtà lavorativa a tutti gli effetti» spiega Caterina Micolano, presidente di Alice «attualmente siamo in 13 e stiamo formando altre 7 persone che saranno operative dal prossimo anno. Chi lavora qui è regolarmente assunto, ha i contributi, la malattia, ha diritto alle ferie e anche alla cassa integrazione».
Lʼapproccio nuovo di Sartoria San Vittore è avere una missione e compierla con concretezza, una sorta di business is business, ma che non perde di vista il contorno sociale. E a chi storce il naso al connubio moda-etica, Micolano risponde: «La moda è un potentissimo linguaggio non scritto e ci permette di dare un messaggio. La moda è tuttʼaltro che vuota, siamo noi a riempirla di significato, e il binomio “moda speculazione – noi etica” non funziona, bisogna andare al di là dei soliti cliché e fare meno green washing, da entrambe le parti».
Alice compirà 30 anni nel 2022 e in questo trentennio ha dovuto – di necessità – cambiare radicalmente il proprio approccio, come radicalmente è cambiata la società, il quadro culturale ed economico: «Occorre essere più impresa» continua Micolano «conquistare il mercato con un prodotto che non faccia rinunciare alla qualità finale in nome della sostenibilità. Come possiamo fare? Solo con i fatti, lavorando sul prodotto e sulle persone. Perché abbiamo davanti delle persone “comuni”, con normali capacità lavorative, ma che spesso provengono da culture – anche lavorative – diverse (il 67% delle detenute ha origini straniere, ndr). Noi facciamo in modo che si rendano consapevoli di essere “capaci” di creare qualcosa, spostando lʼattenzione dal reato commesso a un nuovo modo di essere. Allʼinterno del laboratorio ci sono persone che hanno estinto la loro pena 15 anni fa, persone che la stanno ancora scontando, ma questo non è il tema: non è cosa hai fatto, ma cosa vuoi fare».
Da Sartoria San Vittore l’oggetto è sì “prodotto” ma altresì un mezzo di comunicazione «e il nostro modo di essere impresa è generare una società più inclusiva, dare significato al made in Italy. In questi giorni stiamo realizzando un pupazzo per Cappellini, su disegno di Elena Salmistraro: mi piace pensare che quellʼoggetto finirà su un divano e diventerà un topic di conversazione, e che il fatto che sia stato cucito dalla sartoria del carcere dia un valore aggiunto, alimenti il cambiamento» sottolinea il presidente di Alice. «Il nostro è un lavoro vero, che produce fatturato, che dona opportunità lavorative. Le aziende con cui ci interfacciamo cominciano a chiederci i nominativi delle nostre ragazze da inserire nei loro laboratori interni e questa è la conquista più grande: il riconoscimento del valore della persona e di quello che sa fare».
La selezione avviene in primis allʼinterno del carcere, e la scelta di solito ricade su detenute con una pena di almeno 4/5 anni per permettere lʼadeguata formazione e lʼinserimento nel mondo del lavoro.
A una prima selezione seguono dei colloqui da parte della cooperativa e viene testata anche la propensione allo studio e alla manualità: «è un lavoro duro questo, si deve imparare non solo un mestiere, ma a stare seduti al banco, a essere puntali, seri, capaci. Noi non vogliamo insegnare a fare oggetti di basso costo, insegniamo il made in Italy con le aspettative che questo comporta, ma anche con la enormi possibilità che regala, alle detenute e alle altre associazioni con cui facciamo rete, come è successo con la sartoria Fiori allʼocchiello (associazione La Rotonda di Baranzate) o con lʼatelier Le Nespole (associazione il Laboratorio di Quarto Oggiaro). Il terzo settore deve crescere su attività di questo tipo e deve farlo con un modello economico possibile, la formula “conto terzi” ci consente di avere rischi minori, di investire il ricavato nella formazione e nel supporto alle detenute, con l’obiettivo di vivere di ciò che facciamo. Insomma, dal bilancio non si prescinde». E, sì, anche questa è etica.