«E sul grifo del cinghiale non era più la polvere delle buche esauste, ma scura e molle una mota odorosa di fungo». Non so più da chi né dove sia stata scritta quella bella cosa, ma ci ho ripensato vedendo l’ennesima scena romana con cinghiali a spasso per le vie e nei giardinetti della città.
Ho pensato che un cinghiale a Roma non ha nulla di incongruo, e il fatto che grufoli tra i cassonetti anziché nella macchia è un puro accidente, un anacronismo panoramico: ma niente più.
Per il resto è una presenza attendibile, e il romano che assiste alla passeggiata dei cinghiali non ha uno sguardo diverso da quello del Lucrezio di Schwob che guarda il dorso striato dei porci selvatici che fiutano la terra («Et il aperçut le dos des pourceaux rayés qui avaient toujours le nez dirigé vers la terre»).
A Roma, per così dire, il cinghiale è domestico.
A Milano, no. Quassù pure se ne vedono, ma con strepito. Il branco di cinghiali recuperato mesi fa dal Naviglio Grande, con le associazioni animaliste e i carabinieri e i vigili del fuoco e le televisioni e i passanti convenuti alla scena, era come una meteora di passato arcaico schiantata su una incompatibile plaga incivilita, il prorompere antico e silvestre di una naturalità dimenticata in un mondo conchiuso di architetture cementate.
Il cinghiale a Roma non è diverso dalla fiera portata dal fiato della giungla dentro un villaggio di fango africano: nature contigue, conviventi.
Il cinghiale a Milano è un disperato controsenso, una penosa bizzarrìa, un’imprevedibilità esotica da rammostrare e accudire, magari: ma la presenza del cinghiale non diventerebbe quotidiana nemmeno se fosse quotidiana, non diventerebbe familiare nemmeno se il cinghiale si riproducesse al Parco Sempione.
Perché a Milano può far caldo, ma non c’è una stagione in cui il cinghiale alza dalle buche esauste il grifo impolverato; e a Milano può piovere, ma non c’è un autunno che glielo impregna di una mota odorosa di fungo.