Senza fineElisa Fuksas e l’inno al divismo acquatico di Ornella Vanoni

Fin dall’inizio del film documentario sulla cantante si capisce che il filo logico verrà perso volentieri e che, anzi, la parte più interessante dell’opera sarà proprio nel confronto tra la regista e la diva. Il resto si snoda tra immersioni termali, qualche tic da star e (poche) confessioni personali

dal trailer su Youtube

È insolito e stravagante il film di Elisa Fuksas su Ornella Vanoni, che a fine febbraio trova la strada delle sale cinematografiche dopo la presentazione alle Giornate degli Autori dell’ultima Mostra del cinema di Venezia.

In “Senza fine” Elisa ha l’ardire di mettersi sul piano della diva, occupando la scena insieme a lei, mentre insegue uno scopo che già dall’inizio appare destinato a fine miserevole: dare un senso logico al loro film. Perché, ovviamente, il vero senso del tutto sta proprio in quel fare e disfare, nel teatro degli appuntamenti mancati, le lamentele per la fatica, le scuse accampate, il dire che fa un caldo boia, il promettersi e il fregarsi tra la regista ambiziosa e la stella immutabile che per qualche giorno le ha concesso licenza d’ascoltarla, interrogarla (pochissimo) e più che altro contemplarla – lei e il suo corpo metafisico.

Intanto Ornella si sospende senza posa in varie forme acquatiche – vasche e piscine – dal momento che stare a mollo pare essere la sua terapia di sollievo e lo stesso vale per Ondina, la sua cagnetta che si tuffa di testa. La canicola impazza sul set, fissato in una location astuta – una desolata clinica della salute a Castrocaro Terme, che un po’ fa “Marienbad” di Alain Resnais, un po’ Sonnmatt di Herman Hesse – dove non c’è anima viva, i camerieri si vedono solo di profilo e tira un’aria stile Shining. Fin dall’inizio, tutto congiura perché il programma di lavoro vada a ramengo – comunque non voleva essere un ritratto, tanto meno una bio, figuriamoci un omaggio – e si sviluppi l’affascinante match tra la giovane creativa e l’icona eterna che l’ammette benignamente al suo cospetto, senza tuttavia negarsi nemmeno uno dei suoi capricci. Il segreto del film è che la coppia funziona e che, una per l’altra, le due figure hanno alti e bassi semi-fatali, ma poi ritrovano sempre la connessione.

Elisa gioca alla regista nervosa (che probabilmente è, e nemmeno si dà pena di nasconderlo), alle prese con aspirazioni irrisolte e insicurezze. Ornella dosa il suo distratto concedersi un giorno dopo l’altro, magari per offrire la propria versione sull’amore – anarchia e romanticismo: sennò Strehler, Paoli e soci che ci sono stati a fare? – o sul lavoro – serietà militaresca e dedizione del Novecento – e poi su Milano, sulla passione per i vestiti e in particolare sulla solitudine e la depressione, argomenti familiari, coi quali mantiene per fortuna un rapporto d’attenzione intermittente, perché la distrazione spesso è la salvezza degli uomini (e delle donne).

La Fuksas insegue la protagonista, sceglie inquadrature di pregio, usufruisce di una fotografia eccellente (della coppia Simone D’Arcangelo, Emanuele Zarlenga), ma snobba gli ospiti di passaggio, coinvolti in base a una pianificazione teorica che Ornella provvede a sabotare. Solo con Paolo Fresu lei si concede a un duetto serio, con Capossela fa solo un balletto attorno al pianoforte e con Samuele Bersani si limita a un chit chat insulso, in una balera dei dintorni. Del resto la musica entra ed esce dalla storia suggerendo, ma non imponendo, un second thought su questa voce italiana che descrive un’epoca.

Chi vuole può limitarsi a seguire il dipanarsi del film-nel-film, il set deserto, gli attrezzisti scoglionati, le riprese che cominciano di botto quando nessuno è pronto, perché Ornella s’è manifestata e ha preso a dire le cose giuste, perciò via, senza ciak, lente sbagliata, cristo santo giriamo. Infine i tête-à-tête sulle sedie a sdraio, in cui Elisa prova a tirarla dentro su argomenti intimi (la regola aurea del film era: per carità, niente interviste), ma si resta più a rimirare la simmetria dell’inquadratura che a seguire la laconicità delle confessioni di Ornella – che è sinonimo di libertà, coraggio e indolenza, e questo lo sapevamo, ma nel film si rivela soprattutto uno spirito ironico.

Resta memorabile l’arrivo della Vanoni sul set, a bordo del solito orrendo van nero nel quale vengono chiuse le celebrità, mentre Elisa da un pezzo l’aspetta in una stazione di servizio. E c’è una scena conclusiva che doveva essere solenne ma è un po’ mancata, con Ornella addobbata da sirena, di notte, a bagno in un’altra piscina – peccato che le circostanze ambientali remino contro, faccia freddo e lei abbia la cena sullo stomaco.

Sulla messinscena aleggia la malinconia e un rassegnato fatalismo, oltre all’ansia del non farcela a esprimere ogni cosa. Alla fine tutti, Ornella, Elisa, la crew, se ne vanno a casa, ciascuno insoddisfatto per i suoi motivi. Eppure il film s’è fatto. Ha un piglio d’autore rispettabile e rappresenta un’artista complicata, come sarebbe stato difficile farlo in altro modo.

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