Principio di civiltàL’ignobile allusione dei manettari e la questione morale della giustizia

Il Fatto quotidiano ha attaccato la decisione della Corte Costituzionale di tutelare il diritto di corrispondenza, insinuando che cosi i boss potranno ordinare stragi e omicidi per lettera

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Ci sono piccoli episodi, scaramucce insignificanti che hanno il grande pregio di far capire il clima del tempo e soprattutto la mediocrità del materiale umano.

Non sto parlando del Quirinale ma di un semplice “occhiello” del Fatto nel titolo di un articolo che parla di una importante, liberale sentenza della Corte costituzionale.

Il giornale diretto da Marco Travaglio, l’uomo che ama farsi odiare dai garantisti italiani con un titolo offensivo che a dire il vero non riprende il contenuto del pezzo a firma di Antonella Mascali denuncia il supposto favore che la Consulta avrebbe fatto alla criminalità organizzata dichiarando li costituzionalità della censura della corrispondenza tra detenuti e i loro difensori.

È una bella sentenza scritta da uno dei migliori giuristi penali italiani, Francesco Viganò: il ragionamento è lineare e limpido. Posti sulla bilancia due contrastanti diritti, quello alla difesa sociale e quello alla personale libertà di comunicazione, la Corte, nell’ambito del paradigma dell’art. 3 della costituzione individua il punto di equilibrio nella tutela del diritto di difesa di cui la comunicazione a ogni livello dell’imputato con l’avvocato è espressione.

Il bilanciamento è attentamente soppesato con le restrizioni tipiche del regime del 41 bis rispetto alle quali il visto di censura è un aggravio eccessivo che lede il diritto di difesa. Il giudice delle leggi, qui è il punto, ritiene che una società democratica debba correre il rischio che si lega al rispetto della segretezza delle comunicazioni perché altrimenti lo squilibrio sarebbe intollerabile per lo Stato di diritto.

L’occhiello nel titolo, di pretta matrice travagliana, («geniale: cosi i boss potranno ordinare stragi e omicidi per lettera») ha scatenato una generale indignazione presso gli avvocati, ma, sembra incredibile non contro l’incredibile offesa ai giudici della Corte quanto alla dignità e alla reputazione dell’avvocatura italiana.

Una reazione che anche a chi scrive, pur membro della categoria sembra spropositata e che si concretizza addirittura nella minaccia di querele e diffide.

La presidente della massima istituzione delle toghe il Consiglio Nazionale Forense ha addirittura diffidato Travaglio a prendere le distanze nientemeno che dall’occhiello dell’articolo pena il ricorso alle vie legali, come in uno sfratto.

Questa esplosione d’indignazione costituisce un clamoroso autogol: Travaglio rispondendo a una lettera di protesta di un avvocato ha diplomaticamente osservato che il titolo si riferisce ovviamente a una esigua minoranza di avvocati «disposti per collusione o paura a trasmettere all’esterno ordini delittuosi dei loro clienti» tra cui inserisce il caso di «una avvocatessa di Canicattì». Da qui egli definisce «criminogena» la sentenza della Corte in quanto «favorisce tali deviazioni».

Assai meno gentile la risposta di Marco Travaglio alla presidente del Cnf, cui rinfaccia di parlare troppo dei diritti degli avvocati dei mafiosi e tacere su quella grave ferita al diritto di difesa che è l’obbligo di Green Pass per gli avvocati.

Ho sempre pensato di Travaglio, penna tra le più brillanti, come al perfetto esempio di una vena anarcoide – eversiva, intimamente autoritaria e intollerante, da sempre presente in una certa cultura, anche politica, italiana che ha trovato la sua perfetta sintesi nel motto «me ne frego» (di chi non la pensa come me, della salute degli altri, dei criminali cui vanno negati i diritti elementari e il cui difensore può essere l’avvocato para-mafioso, sociopatico e No Vax, il prototipo appunto del legale secondo il direttore).

Il diritto di difesa svuotato e ridotto a simulacro è quello che piace a lui e Piercamillo Davigo e che piaceva anche al suo amico Beppe Grillo prima che scoprisse i piaceri del processo penale. Auguri.

Onestamente a me le frasi e le osservazioni del Fatto e del suo direttore sembrano diffamatorie per la Corte Costituzionale e per uno dei suoi più valorosi componenti ma non certo per la categoria degli avvocati.

La verità è che andava e va difesa la Consulta e il principio di civiltà che la sua sentenza ha ribadito, invece la levata di scudi e le polemiche ci sono state solo per l’allusione al ruolo colluso del difensore.

Che vi siano disonesti nelle fila degli avvocati come in tutte le categorie è naturale e innegabile, così come vi sono fulgidi esempi di eroico sacrificio come Fulvio Croce ucciso dai brigatisti rossi e Serafino Famà, assassinato dalla mafia per aver dissuaso una propria assistita dal piegarsi alle volontà di un boss.

Quello che è interessante è capire il perché di reazioni che lasciano intuire come il tema dei rapporti tra avvocato e cliente, così dibattuto rappresenta tuttavia un nervo scoperto per l’avvocatura.

Ma più in generale il problema è l’esistenza di una questione morale nel mondo della giustizia esplosa con la vicenda Palamara e poi proseguita con altri scandali che è il riflesso di uno dei grandi problemi della società italiana: la frantumazione sociale.

Fuor di metafora, è noto che nell’attuale critico e frastagliato momento storico, insieme alla crisi della magistratura si è registrata la circostanza che alcuni importanti esponenti dell’avvocatura italiana, che hanno rivestito e ancora ricoprono cariche politiche e associative di primo piano sono sottoposti a processo, in taluni casi con applicazioni di misure cautelari o addirittura richiesta di condanna.

Per tutti non ho alcun dubbio sulla loro estraneità ai reati contestati, ma questa è una posizione personale che non può avere rilievo: ciò che mi preme sottolineare è il rischio che può derivare da una sorta di riflesso condizionato, dalla sensazione di sentirsi sotto assedio, dalle rivendicazioni corporative di una sorta d’immunità.

Come per le vicende politiche anche in queste polemiche settoriali emerge il male oscuro della democrazia italiana: la frantumazione sociale, la perdita di una visione comune.

Non possiamo subire attacchi indiscriminati alle garanzie ma non possiamo neanche illuderci che i problemi etici che hanno investito altre categorie professionali non ci riguardino come avvocati, pena la generalizzazione di vizi e pregiudizi che intaccherebbero il prestigio professionale di tutti.

È importante non tanto la reazione stizzita agli attacchi, quanto la capacità ove ve ne fosse bisogno di affrontare una eventuale questione morale che riguardi l’avvocatura, con fierezza e senza giudizi affrettati, ma con il necessario coraggio. Ed è una questione che riguarda oggi tutta la società italiana.

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