I dati sull’occupazione di novembre pubblicati dall’Istat certificano che la crisi occupazionale generata dalla pandemia può considerarsi conclusa. Il tasso di occupazione nella fascia d’età 15-64 registrato a novembre 2021 è il 58,9%, superiore rispetto al 58,7% del febbraio 2020. È un tasso di occupazione vicino al massimo di sempre, registrato nel giugno 2019 (59,3%).
Nello stesso periodo il tasso di occupazione è aumentato sia per le donne (dal 49,6% al 49,9%) che per gli uomini (dal 67,9% al 68%). Sembrerebbe quindi che, almeno da un punto di vista quantitativo, la pandemia non abbia prodotto un effetto sproporzionale per l’occupazione femminile. Restano da valutare gli effetti sulla carriera.
Allo stesso tempo il tasso di occupazione è aumentato in quasi tutte le fasce d’età e in particolare per i 25-34enni (dal 62,4% al 63,5%). Questa fascia d’età registra il tasso di occupazione più alto degli ultimi 10 anni. L’ultima volta che il tasso di occupazione per i 25-34enni era superiore al 63% fu nel marzo del 2012. Il tasso di occupazione è aumentato anche per 35-49enni (da 73,4% a 73,6%) e per i 50-64enni (da 60,8% a 61,3%). L’unica fascia d’età che perde rispetto a febbraio 2020 è quella 15-24 che passa da 18,5% a 18%. Si tratta comunque di un dato superiore rispetto alla media degli ultimi 5 anni (17,5%).
Sono dati incontrovertibili. La crisi occupazionale iniziata quasi due anni fa è terminata grazie al tempestivo intervento del governo e della Banca Centrale Europea, alla campagna vaccinale e alla ripresa economica mondiale.
C’è però un dato che viene citato a dimostrazione del contrario. I principali giornali riportano che il numero di occupati è ancora inferiore al periodo pre-pandemia di 115mila unità. Tutto vero. A febbraio 2020 il numero di occupati era 23,17 milioni e nel novembre del 2021 era 23,06. Il mercato del lavoro italiano dovrebbe quindi generare ancora 115mila posti di lavoro per tornare ai livelli pre pandemici. Questa lettura non considera però l’evoluzione demografica del Paese. Non è stato il Covid a distruggere quei posti di lavoro ma la struttura della popolazione italiana.
Come sottolinea il rapporto Istat, «la dinamica della partecipazione al mercato del lavoro per classi di età risente dei mutamenti demografici che negli anni recenti evidenziano un progressivo invecchiamento della popolazione. In particolare, si osserva il calo della popolazione tra 15 e 49 anni (negli ultimi mesi mediamente circa -1,7% annuo, pari a oltre 400 mila persone) determinato dalla fuoriuscita dalla classe di età delle folte generazioni dei 49enni, non compensata dall’ingresso dei 15enni. Simultaneamente si rileva la crescita della popolazione nella classe 50-64 anni (mediamente +1,2% annuo, pari a circa 150 mila persone)».
Facendo il conto, negli ultimi mesi la popolazione d’età compresa tra 15 e 64 anni è diminuita di quasi 250mila persone. Il calo del numero degli occupati sarebbe quindi la conseguenza della diminuzione del numero di persone in età lavorativa.
La nota positiva è che, in percentuale, il calo degli occupati è stato meno marcato del calo della popolazione compresa tra i 15 e 64 anni. In poche parole il denominatore (popolazione in età lavorativa) è diminuito più del nominatore (totale occupati) e quindi il tasso di occupazione è cresciuto.
I 115mila posti di lavoro in meno non sarebbero dunque il segno di un mercato del lavoro che soffre ancora la crisi pandemica ma l’effetto dell’invecchiamento della popolazione, del rallentamento dei flussi migratori e del calo delle nascite degli ultimi due decenni.
Questi dati impongono di pensare al di là del Covid. I problemi del mercato del lavoro italiano non sono più legati alla pandemia. L’emergenza del mercato del lavoro generata dal Covid è terminata ma rimangono i problemi strutturali.
Prima di tutto, esiste un’enorme differenza occupazionale tra uomini e donne. Impossibile festeggiare i dati sull’occupazione femminile degli ultimi mesi (+0,3% da inizio pandemia rispetto al +0,1% per gli uomini). Il divario di occupazione tra uomini e donne rimane il più ampio d’Europa.
Secondo, i tassi di occupazione giovanile. Nonostante siano ai massimi da 10 anni per la categoria 25-34 anni, nessuno può dirsi soddisfatto. I tassi di occupazione in questa fascia d’età (63,5%) sono nettamente inferiori rispetto alla media pre-2008 (circa 70%) e soprattutto rimangono lontanissimi dalla media europea. Inoltre la percentuale italiana di giovani d’età compresa tra i 15 e 29 anni non in istruzione, formazione o occupazione era la più alta d’Europa a fine 2019 (22%) così come nel secondo trimestre del 2021 (23,4%). Sono numeri lontanissimi dalla media europea che è rimasta stabile attorno al 13%.
Terzo, i divari regionali. Nel 2019 il tasso di occupazione tra le regioni italiane variava tra il 70,4% dell’Emilia-Romagna e il 41,1% della Sicilia.
Quarto, il paragone rispetto all’Europa. A fine 2020 il tasso d’occupazione dell’Italia era 58,1%, lontanissimo dal tasso tedesco (76,2%) e dalla media europea (67,6%). Si tratta di una differenza non spiegabile con la pandemia visto che nel 2019 il tasso di occupazione italiano era del 59%.
Quinto e forse il più complesso di tutti, la crisi demografica. Nei prossimi anni la popolazione in età lavorativa diminuirà ancora generando squilibri nel sistema pensionistico. Ammesso e non concesso che il governo possa incentivare il tasso di natalità, i risultati arriveranno solo nel lungo periodo. L’unica soluzione nel breve-medio termine rimarrà consentire l’ingresso in Italia di lavoratori non comunitari (vedi la recente approvazione decreto flussi).
In definitiva, da un’attenta lettura dei dati pubblicati dall’Istat si evince la fine dell’emergenza lavorativa generata dalla pandemia. È una buona notizia per il Paese. Adesso è arrivato il momento di guardare al di là di quell’emergenza e di focalizzarsi sulle debolezze strutturali del mercato del lavoro.