Premesso che Mario Draghi resta ancora uno dei più autorevoli candidati al Colle, assieme a Sergio Mattarella (anche se non si può dire ufficialmente), tutti quelli che oggi si stracciano le vesti per i numerosi intoppi che al momento hanno frenato il percorso lastricato d’oro da Palazzo Chigi al Quirinale dovrebbero prendersela con lo stesso Mario Draghi e con i suoi ingenui consiglieri impolitici anziché con il destino baro, con la scarsa lungimiranza dei leader di partito o con le solite miserie della politica.
La campagna di Draghi per il Quirinale, comunque andrà a finire, e anche se finisse con l’incoronazione di Super Mario per disperazione, per mancanza di alternative e per la formidabile incapacità dei partiti che ci meritiamo, sarà ricordata negli annali della politica come la più abborracciata e maldestra della storia recente.
Se Draghi non avesse fragorosamente manifestato l’interesse personale per il Colle e non avesse mescolato la continuità dell’azione di governo con le attività para-costituzionali di individuazione del suo successore a Palazzo Chigi oggi avrebbe tutti i partiti della maggioranza in fila e in ginocchio a pregarlo di fare l’estremo sacrificio di spostarsi al Quirinale.
Sarebbe stato comunque un erroraccio, perché il suo posto, il posto dove serve all’Italia e come dice l’Economist anche all’Europa, è al governo, alla guida del potere esecutivo, all’attuazione del Piano di Ripresa e delle riforme strutturali per ottenere i soldi europei che altrimenti non arrivano, alla guida della campagna nazionale di vaccinazione permanente, al centro dell’azione politica e culturale del continente sul futuro dell’Unione e di molte altre cose serie e concrete che non necessitano dell’ausilio dei corazzieri.
Sarebbe stata comunque un’ingenuità pericolosa, ma almeno gli avrebbe preservato un decoro istituzionale proporzionato alla sua statura, non a quella dei suoi avversari, e avrebbe indicato ai partiti una via d’uscita dall’impasse istituzionale senza muovere nemmeno un dito (come, insomma, potrebbe capitare a Mattarella). E a quel punto, ma solo dopo essere eletto al Quirinale, Draghi avrebbe potuto dettare condizioni alte e nobili sulla continuità d’azione esecutiva del suo ottimo governo di salvezza nazionale.
E invece è stata scelta l’altra strada, quella della sopravvalutazione delle proprie forze e dell’imposizione morale ai partiti affinché lo eleggessero per diritto soprannaturale al Quirinale, con la motivazione controintuitiva, oltre che francamente fessa, secondo cui il premier non avrebbe più voluto avere a che fare con la politica politicante che al governo lo aveva imbrigliato e aveva finito per insolentirlo. Che cosa volevate che rispondessero i partiti all’ostentata sprezzatura di chi pretende il Quirinale in quanto più cool di tutti?
Chi si strappa le vesti per l’umiliazione inflitta a Draghi dovrebbe prendersela anche con quei partiti costituzionali che nell’ultimo anno hanno fallito il più facile dei rigori a porta vuota nella storia dei rigori a porta vuota. Ma se i calciatori di rigori li vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia purtroppo in questa occasione ci ritroviamo in pieno lockdown, perché in giro di coraggiosi, di altruisti e di fantasiosi non ce ne sono.
Lasciamo stare l’inaffidabile Lega (ieri avrebbe proposto, ma poi ha smentito, lo splendido Sabino Cassese, ma appunto ha smentito). Lasciamo stare gli imbarazzanti Cinquestelle (ieri la dichiarazione di Giuseppe Conte, sedicente «latore di una premura», sia solennemente a favore sia chiaramente contro Draghi al Quirinale ha raggiunto vette di comicità involontaria da meritargli una serie Netflix o Prime).
Le responsabilità sono del Pd e di Forza Italia. Non hanno nemmeno provato a costruire l’uscita di sicurezza dal bipopulismo che il favoloso governo Draghi aveva offerto a loro e all’Italia. Al contrario, il Pd ha continuato ad accelerare la folle corsa contro il muro dei Cinquestelle, su cui ovviamente sono andati a sbattere con le manovre gialloverdi di questi giorni e in tutti i momenti decisivi. Forza Italia o quel che ne rimane, invece, si è spaccata in una componente di governo che ha pensato esclusivamente a sé stessa e in un’altra sdraiata sull’osceno populismo retequattrista oltre che salvinian-meloniano.
Si sono mossi, male, soltanto i gruppetti dei fuoriusciti renziani e dei centristi del centrodestra, e in modo leggermente più coordinato i calendiani e i radicali di Emma Bonino. Troppo poco per la colossale occasione che aveva creato l’arrivo di Mario Draghi, la cacciata del grottesco governo Conte e il conseguente e orgoglioso salvataggio del paese.