Contro la pura narrativitàLe vite libertine e il balsamo della vera lingua italiana

Giorgio Ficara è erede di Sciascia e Savinio, Parise e La Capria, Garboli e Manganelli. Il suo ultimo libro edito da La Nave di Teseo è una galleria d’amatore: undici quadri narrativi in cui la prosa è conversevole e di elegante precisione

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La prosa di Giorgio Ficara è italiana e così bella, un balsamo. Sì, avete letto bene: la prosa. (Parola negletta: come forma, la impronunciabile: e come stile, il fantasma che ritorna, il revenant). È respiro della lingua e ossigeno al cuore dire e scrivere prosa italiana. Persiste ancora una lingua che può dirsi italiana e c’è una letteratura che le corrisponde: Ficara è uno degli artefici del miracolo.

Un letterato, un uomo versato alle lettere: capace di dire alla lettera: uno scrittore, per la miseria. Esistono ancora, i letterati: e scrivono, sì: e lo fanno in italiano, non nella post-lingua della “pura narratività”. Sono gli eredi di Sciascia e Savinio, Parise e La Capria, Garboli e Manganelli: oltre a Claudio Magris, eterno ragazzo d’aprile, ci sono e hanno nome e cognome, e chi legge il Diario li conosce e li conoscerà. Letterati a cui dovrebbe anche essere lasciata la parola sulla letteratura; non come ora che orecchianti e scriventi spargono parole senza senso.    

Ficara è un saggista e notevole: continua la grande tradizione italiana della prosa saggistica, ammirata in Europa e risorsa in Italia. Sono stati i saggisti della grande scuola italiana – Garboli e Manganelli, Calasso e Magris – a tenere in vita la lingua italiana e la prosa dalla metà degli anni Ottanta alla fine degli anni Novanta (insieme in altro modo a Gianni Celati e ai “narratori delle pianure” della via Emilia), mentre iniziava a dilagare la pandemia detta “pura narratività” e la sua post-lingua. Ora sono sempre loro, i saggisti eredi dei maestri, a tenere in splendore la tradizione della lingua intelligente di Manzoni e Leopardi: la sua fisiologia.  

(A cavallo tra i due secoli alcuni late bloomer refrattari alla “pura narratività” – Walter Siti, Hans Tuzzi, Filippo Tuena – insieme al coriaceo navigatore solitario Michele Mari avrebbero poi offerto ai lettori romanzi degni di esser detti letteratura. Guarda caso sono tutti letterati: lettori, prima di tutto e sempre).

I primi saggi di Ficara che ho letto son stati due dedicati a Leopardi: Il punto di vista della natura, 1987, e Sui mari analoghi, 1988: scoprivo uno scrittore. Allora erano ancora attivi i maestri della generazione di Garboli e al loro meglio. La rivelazione che lo scrittore fosse notevole è arrivata molti anni dopo, nel 2010, anno di edizione nella collana Frontiere di Einaudi di un libro unico: Riviera. La via lungo l’acqua. Un libro che alcuni dicono inclassificabile ed è un essai in purezza e così narrazione, dedicato a una terra: la Liguria, una riviera di luoghi e lettere. Ebbene: Riviera sta con Leggenda privata di Michele Mari a costituire un dittico delle meraviglie italiano. Il bello doveva ancora venire: un saggio d’intervento elegante e affilato: uno stiletto: Lettere non italiane, pubblicato da Bompiani nel 2016. Ficara qui fissa in parole e frasi e senza remissione quel che ogni letterato sa e patisce: la nostra letteratura non può più essere detta “italiana”: non ha alcun legame con la tradizione, che si è chiusa con gli scrittori della generazione di Sciascia e Calvino, La Capria e Parise. La lingua italiana non è più praticata; e non è più intelligente.

Ora, già quel che ho detto basta a far di Ficara uno scrittore e italiano da leggere; ma se poi l’autore scrive un libro che è un passo nel giardino di Benedetta Craveri, signora di penna e saggista di qualità, allora un cerchio si chiude: si può discorrere. Il nostro libro ha titolo Vite libertine: è una galleria d’amatore: undici quadri narrativi, in scena i comédien di una delle pièce più strepitose della storia: il tempo dei Lumi, e del libertinaggio in luoghi ameni: il Paradiso della Lingua.

Ci sono tutti, i philosophe e le dames galantes: Voltaire e Madame du Châtelet, nello château del marito di lei, a Cirey, dove lui scriverà Zadig e altro e madame le Institutions de physique, un trattato sulla fisica di Newton; Diderot, il letterato filosofo inventore della Modernità, geniale e campione di primavoltità (il romanzo moderno, la nouvelle erotica, la critica d’arte), qui tutto preso dell’amore per Sophie Volland (al secolo Louise-Henriette Volland), che è per lui «la creatura più intelligente dell’universo, dunque la più bella»; Helvétius, le bien-aimé, indulgente e incline ai piaceri «ma poi consacrato alla donna della sua vita e a un unico libro»; Jean Baptiste Le Rond d’Alembert, matematico e fisico, philosophe, chiamato da Diderot a lavorare alla Encyclopédie, «povero, disciplinato, sterile e casto come un monaco certosino, immortale ma all’improvviso sensible e disperatamente innamorato di una signora del gran mondo», ovvero Mademoiselle de Lespinasse, che si lacerava d’amore per due altri e divideva il primato di salonnière con Madame du Deffand. Un carosello di conversatori d’eccezione, che perpetuavano il primato del francese come latino dei Moderni e imparavano la felicità, a volte.

Ficara lo chiarisce subito, il paradigma dei quadri in galleria: «La felicità si impara, come l’algebra e il latino». (Già l’accostamento di algebra e latino dice tutto e bene). «E i libertini, dal primo all’ultimo, dall’ingegnoso Gassendi, che confutò Cartesio, al povero rake delle tavole di Hogarth, lo sapevano benissimo. Erano alunni attenti, e improvvisamente il mondo per loro tornava paradiso terrestre (…) Ma tutti, al momento opportuno, erano felici, compiacenti, distratti, indulgenti, dissipatori, dolci, misericordiosi (…) Le donne con loro si sentivano “uguali”, né madri né mogli, ma amiche lasciate libere«». Insomma, l’equazione libertinaggio uguale virtù: per via di ragione e per amore della libertà. Non sarebbe stato così (“il paradiso terrestre durò poco” – e forse non era tale, non sempre): la etocrazia sarebbe rimasta un miraggio come altri prima: mai proclamata, per manifesta ignorantaggine della maggioranza e per sopravvenuta stanchezza dei comédien. Difficile è l’arte della conoscenza per gioia. Ficara è convinto che il discorso vada ripreso, che si sia interrotto per via di “fato” e per “una certa distrazione del pubblico”, la maggioranza sempre silenziosa. Così riprende il discorso e le storie: voilà i quadri narrativi.

Spiccano tra gli altri – e non stupisce – i tre quadri con protagonista il vecchio aristocratico Timoleone e la nipote Linette, impegnati in un dialogo che è per lui memoria e curiosità per la nipote. (Il personaggio è d’invenzione ma ricalcato sulla figura di Louis Hercule Timoléon, duca di Cossé-Brissac, Pari di Francia e fedele al re, imprigionato e poi linciato dalla canaglia). Il dialogo è scandito dalle historiettes che Timoleone racconta alla nipote, illuminanti i princìpi e l’uso dei giorni dei libertini compagni di giovinezza – nipote che appare vera savante in fiore, e curiosa di quel tempo e i suoi protagonisti. Tutto per una prosa che non mima la conversazione alla francese e rileva il dilettevole debito alle prose di Leopardi, le Operette morali: ogni discorso scorre come acqua su una lastra levigata

Timoleone è alter ego e summa dei libertini tutti, colto come tutti gli altri all’autunno inoltrato della vita e lucido: un uomo fedele alla singolare filosofia dei compagni di giovinezza, pronti a cogliere un pensiero e sperimentarlo, per poi lasciarlo andare. Dice alla nipote: «Con l’ironia ci riprendiamo ciò che abbiamo appena detto – la verità, presumibilmente – e la gettiamo via, stiamo dentro e fuori della verità nello stesso istante». Una perfetta raffigurazione del dubbio critico come unico metodo. Linette però non concede tregua: «Un’ironia che distrugge tutto, non distrugge prima o poi se stessa?». La risposta di Timoleone dice il limite, il suo eterno fascino: «Ben detto, bambina mia, ma la tentazione era forte…». Suona molto attuale, direi. Ficara gioca su due tavoli, come ogni scrittore degno di tal nome: dice dell’altro ieri e indica il riverbero sull’oggi. Sono tanti e notevoli, gli esempi, e lo spazio è tiranno. Linette pone le domande che contano e durano – l’amore e la virtù, Dio e il Nulla: Timoleone risponde e recita le ragioni dell’amore e quelle contrarie, e così via: quel  che conta sono il diletto e la gentilezza, la grazia, i mots d’esprit e le historiettes.   (Linette non è mai sazia delle historiettes del nonno libertino, chiede se siano quasi infinite e quello risponde: «Sono infinite come le combinazioni nel calcolo sublime!»).

Infine, da gran comédien, taglia corto: «E dopotutto, parlare di ciò che nessuno sa, con una certa esattezza, non è il meglio che possiamo fare su questa terra?». Difficile non acconsentire, e dopo aver sorriso e lieto.

Giorgio Ficara si conferma scrittore notevole, qui capace di dar figura a un mondo dove la libertà è quella di un pensiero mobile, una forma: dove la virtù è sopra tutto e a prova di immoralità. Riesce a una prosa italiana conversevole e di elegante precisione, articolata: la lingua per discorrere scrivendo e per vivere conversando. Quel che serve e che dovrebbe essere, ci fosse l’Italia.

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