La parola è stridente, quasi cacofonica, come succede ai termini innaturalmente composti. Però “artivismo” offre la temperatura dell’arte di oggi, politicamente impegnata su temi di larga condivisione come i diritti, l’ambiente, le pari opportunità, le migrazioni, i disequilibri tra le diverse zone del mondo. Questioni tra le poche, peraltro, ad attrarre un pubblico giovane. E si sa quanto la cultura abbia bisogno di un ricambio generazionale.
“Artivismo. Arte, politica, impegno”, si direbbe un instant se non fosse che l’autore, Vincenzo Trione, ci ha abituati a lunghe ed esaurienti disamine critiche ben oltre la soglia del contingente. Il suo saggio precedente, “L’opera interminabile”, viaggiava sulla complessità di artisti-mondo impossibili da incasellare, e nel suo nuovo lavoro (sempre per Einaudi) si propone di sostanziare con solide basi teoriche un argomento che altrimenti sospetteremmo di eccessiva attualità.
C’è un dubbio, o una domanda, che si snoda nei capitoli del saggio, che affronta, a proposito di giovani, anche la Street Art e il cosiddetto Global Activism: se per dipanare la sempiterna “questione dell’arte” sia preferibile l’opera costruita su forme significanti, immutabili nel tempo ma proprio per questo slegate dal tempo stesso, oppure quella di taglio sociologico, emotivamente coinvolgente ma che rischia di scadere a breve, come un prodotto da frigo. Certo, fanno eccezioni capolavori come “Guernica”, ma quanti se ne possono davvero contare soprattutto in questo primo non brevissimo scorcio di XXI secolo? Forse nessuno.
Dirimente sarà allora la posizione dell’artista. Perché dunque non definirlo “Intellettuale”, citando così il titolo della performance di Fabio Mauri del 1975 che coinvolse in scena Pier Paolo Pasolini, pochi mesi prima della morte. Elogio dell’artista impegnato, spiega Trione, opposto al peintre philosophe tutto testa e niente cuore, ma anche al pittore-artigiano solo estro e tecnica. Evocando Brecht, «gli intellettuali devono avere sempre il coraggio di dire: parlano quando gli altri tacciono e tacciono quando gli altri parlano, rendendo manifeste le proprie posizioni, senza timore delle contraddizioni e dei pericoli impliciti in tale postura».
Un atteggiamento che va sì contro il potere ma che non c’entra neppure con quel paradigma contemporaneo secondo cui l’arte deve per forza dare scandalo, violare i confini tradizionali, essere trasgressiva a tutti i costi per ingraziarsi l’attenzione dei media, testimonianza di un’età dell’inconsistenza che aderisce ai riti della celebrity culture che il cattivissimo e compianto Robert Hughes stigmatizzò come la «partita giocata dai ricchi e dagli ignoranti per accrescere il proprio potere e il proprio prestigio».
L’artivismo contemporaneo, insomma, seppur resosi necessario con la globalizzazione che ha allargato di molto i confini geografici dell’arte, non fuga dubbi e sospetti. C’è un certo cinismo nei lavori di star conclamate come Ai Weiwei e Banksy non tanto dall’artworld quanto dai social di cui sono assidui frequentatori, consapevoli che tali strumenti necessitano di un linguaggio semplificato. Il cinese usa il web per attacchi politici contro il governo di Pechino, l’inglese lavora invece sul paradosso di un’opera che si diffonde a macchia d’olio attraverso i social mentre lui ha scelto la strategia dell’invisibilità. E poi ci sono i cronisti, i testimoni: producono opere forti, talora insostenibili, sui limiti della pornografia del dolore.
Insomma, l’artivismo è l’ultimo -ismo del nostro tempo? In mancanza di movimenti d’avanguardia, che sono necessariamente territoriali, è questa la vera avanguardia degli anni ’20? Trione sembra privilegiare un’altra strada, «la politica degli impolitici» che non stendono manifesti e sono distanti da ogni approccio ideologico. Testimoniare catastrofi, ma poi trascenderle, spingersi verso territori altri. Arte e non giornalismo, perché l’arte si fonda su una «meravigliosa e irreprimibile ambiguità».