Nella Milano del XXI° secolo, capitale europea della moda e emblema internazionale del prêt à porter, gli abiti per qualcuno possono fare la differenza. A volte tutta la propria differenza. È il caso di Stefano Ferri, che oggi è il crossdresser più famoso d’Italia che, nato e cresciuto a Milano, ha pubblicato da poco un’autobiografia interessante. “Crossdresser – Stefano e Stefania, le due parti di me” (Mursia) racconta infatti una storia che segna la fine di un cliché, anzi di un pregiudizio: se da uomo senti il desiderio di vestirti da donna, allora sei gay.
Stefano – scrittore, giornalista ed esperto di comunicazione – è eterosessuale, marito e padre di una bimba dodicenne che non gli ha mai visto indosso, da quando è nata, qualcosa di diverso rispetto a un tailleur. «Io senza questi abiti occupo spazio, invece di esistere», ci spiega.
Quando lo vidi a Roma per la prima volta era già un punto di riferimento della meeting industry, premiato da Hilton nel 2004 come migliore giornalista specializzato dell’anno e sfilava, con apparente noncuranza, in gonna e tacchi nelle convention di settore, sfidando il conformismo degli ambienti del business.
Un effetto spiazzante, di cui Stefano è sempre stato consapevole. «Il problema è che uno come me non l‘ha mai visto nessuno e questo crea uno scompenso cognitivo, perché le persone non riescono a ricondurre la mia immagine a una categoria conosciuta e familiare».
La storia di Stefano del resto è unica, ma non è l’unica. A Milano e in Italia sono tanti i crossdresser che ancora non sono venuti allo scoperto. Uomini che vorrebbero la stessa libertà che le suffragette si sono guadagnate a caro prezzo, rischiando la galera “per indecenza” per il solo fatto di indossare un paio di pantaloni.
Una rivoluzione di costume talmente riuscita da essere caduta nel dimenticatoio delle cose scontate e che oggi ci sembrano diritti inalienabili. «Tutte le donne, se ci pensi, sono crossdresser come me, solo al contrario. È il numero che genera il concetto di normalità». Un dato di fatto che, specie sulle passerelle milanesi, è da decenni sotto gli occhi di tutti.
A partire da quel 1979 in cui la storia della città e la vita di Stefano hanno incrociato i loro destini. «Avevo 13 anni» – racconta – «prima di allora non so dire come fosse Milano dal lato delle diversità. Quello che so per certo è che nel 1979 arrivò la moda, cominciarono le sfilate, e da lì niente è mai più stato come prima».
Cosa accadde è, nel racconto di Stefano, qualcosa che arriva fino a oggi. «L’apertura rispetto ai costumi, alla mentalità. E per l’ingresso nel Pantheon delle super-città del mondo che Expo, molti anni dopo, ha suggellato. È la moda ad aver aperto gli occhi ai milanesi. Se fossi cresciuto altrove non so se avrei dato sfogo alle tendenze che avevo dentro».
Sappiamo però che si tratta di una rivoluzione ancora non compiuta, tra mille resistenze in quella politica che dovrebbe abbattere barriere, creare uguaglianza. C’è Milano ma poi – ad esempio – c’è una Regione nella quale si fatica anche solo ad avviare la discussione su una proposta di legge contro le discriminazioni omotransfobiche, che spiani la strada anche alla minima libertà di vestirsi fuori dagli stereotipi di genere.
«La politica, per come la vedo io, non anticipa la società, la segue. Le persone sono i centometristi che segnano la strada che la società prima e la politica solo dopo percorreranno. È un processo che cambia, innova, costruisce e a volte distrugge le società. Io credo che la Lombardia abbia gli scattisti più veloci e le società più lente, a differenza di Milano che fa storia a sé. La metafora calcistica rende bene l’idea: nella vita c’è chi attacca e chi prova a non farti segnare ed è giusto che vinca chi riesce a fare goal. Dobbiamo cambiare noi invece di aspettare che lo faccia la politica», dice sorridendo Ferri.
Lo guardo e penso che è vero: ognuno sul campo di gioco si fa strada un po’ come può: alcuni in forza di scarpini e muscoli, altri in gonna e tacco dodici. «Chi nella moda vede solo la moda, è uno stupido», diceva in tempi non sospetti Oscar Wilde. E forse pensava proprio a quelle anime che, per mettersi a nudo, cercavano solo l’abito giusto da indossare.