Solo a pochi fortunati – scriveva Arbasino – l’età concede di passare dalla categoria del “solito stronzo” alla dignità del “venerato maestro”. Vale nella cultura, come nella politica.
Angiolo Bandinelli, il decano della storia radicale, che domenica è morto a 94 anni, si è sempre impegnato con il piglio dell’impunito, come amava definirsi, per rimanere il solito stronzo e non diventare un venerato maestro, quale invece è diventato, malgrado l’improntitudine super-pannelliana che lo metteva perennemente fuori posto e fuori gioco anche nel partito pannelliano.
Di tutti i dirigenti storici (Mellini, Roccella, Stanzani, Spadaccia, Teodori…), che dalla corrente “Sinistra Radicale” dell’inizio degli anni ’60 hanno accompagnato Pannella fino al termine della Prima Repubblica e anche oltre, Bandinelli è stato quello più ingiustamente sacrificato dal leader radicale – qualche mese da deputato alla fine della IX legislatura, subentrando a Gianfranco Spadaccia e un mandato nel Consiglio comunale capitolino – e nello stesso tempo quello più innamorato della sua leadership politica e più interessato a decifrarne l’originalità e la potenza, contro le rappresentazioni di maniera e le ostilità o le fedeltà conformistiche.
Con la sua cultura eclettica, che spaziava dalle arti figurative, alla filosofia e alla poesia, Bandinelli è stato lontanissimo da ogni vezzo e sussiego intellettualistico, rivendicando e spesso anche esibendo, con un po’ di narcisismo, una monelleria militante da eterno ragazzo, sempre presente e disponibile, ma sempre fastidioso e insopportabile. In questo deve avere contato, oltre al carattere esuberante e allo spirito libertario, anche l’idiosincrasia per gli intellettuali organici della tradizione comunista, cioè per i guardiani del bidone dell’ideologia.
Nelle poesie, nelle prose d’arte, nei racconti e nelle traduzioni Bandinelli ha espresso una fantasia d’autore, che riversava in modo diretto anche nell’attività di partito, arendtianamente persuaso – e anche in questo pienamente consonante con Pannella – che la politica fosse in primo luogo una forma di vita e un perenne cominciamento e rovesciamento della realtà, un’invenzione del “possibile contro il probabile”.
Ha cominciato a scrivere su Il Mondo e oltre sessant’anni dopo scriveva ancora dovunque ci fosse spazio per la sua insaziabile poligrafia. Ma che traducesse Eliot o promuovesse campagne referendarie da uno dei tanti fogli radicali succedutisi dagli anni ’60 a oggi, Bandinelli ha interpretato il rapporto tra cultura e politica in un senso radicalmente alternativo a quello di un servizio clericale alla causa. Anche nella stagione più dolorosa, quella che ha seguito la morte di Pannella, e che ha visto la cosiddetta galassia radicale (Partito radicale, Radicali italiani, Associazione Luca Coscioni, Nessuno Tocchi Caino…) esplodere proprio sul punto dell’interpretazione del legato pannelliano, Bandinelli, ormai molto anziano e sempre più malato, ha trovato un modo curioso di essere contro tutti e insieme con tutti, di essere presente, ma ugualmente distante da tutte le rivendicazioni di ortodossia e ufficialità.
Dopo una vita lunga, travagliata da dolorose disgrazie familiari e accompagnata dall’amore per la moglie, cui sopravvisse e per cui scrisse tributi di appassionata riconoscenza, Bandinelli purtroppo lascia dietro di sé una storia da radicale irregolare decisamente meno conosciuta di quel che avrebbe meritato.