A tutti sarà capitato di trovare nella selezione random di Spotify esattamente quella canzone che suona nella testa da giorni. E spesso scorrendo i reel di Instagram compaiono i video delle star che ci interessano di più. Magari nella home page di YouTube spunta un video che parla proprio di quel fatto di cronaca che aveva attirato la nostra attenzione, per quanto marginale.
Gli algoritmi che governano il mondo dei social e di internet sembrano conoscere fin troppo bene gli utenti. In un certo senso è proprio così: sono pieni di dati e informazioni personali che scansionano senza sosta.
Di solito su ogni piattaforma online si incrociano i calcoli più algoritmi che utilizzano l’intelligenza artificiale per metabolizzare i dati dei consumatori, cioè quelle informazioni che ognuno di noi fornisce attraverso le interazioni con la piattaforma. Questi algoritmi usano le informazioni ricavate per curare l’offerta di quella stessa piattaforma ai suoi utenti. In altre parole: ogni “Mi piace”, commento, video riprodotto, ogni clic è un’indicazione che aggiorna gli algoritmi riguardo i nostri gusti, le nostre esigenze, le nostre preferenze. È così che le piattaforme online decidono cosa mostrare ai loro utenti.
È un rapporto sbilanciato, nel senso che il consumatore non sa abbastanza – quasi nulla – delle reali operazioni degli algoritmi: sapere che questi algoritmi esistano e abbiano al loro interno le informazioni non cambia le cose; la consapevolezza non rende questa relazione meno squilibrata.
Oltretutto, quel poco che si impara riguardo gli algoritmi può diventare rapidamente obsoleto: il funzionamento delle piattaforme viene aggiornato, perfezionato e modificato costantemente. A volte fa notizia, come quando Instagram ha gradualmente eliminato – poi reintrodotto – il feed cronologico, ma più spesso agli utenti non arriva alcuna voce.
Non è un caso che ad esempio negli Stati Uniti il Congresso e alcuni organi di settore competenti – come la Federal Trade Commission, che promuove la tutela dei consumatori e l’eliminazione di pratiche commerciali anticoncorrenziali – abbiano recentemente iniziato a perfezionare gli algoritmi commerciali, che hanno ritenuto di avere un impatto troppo grande per non essere completamente regolamentati.
«Abbiamo finito per mitizzare gli algoritmi delle piattaforme online», scrive Michelle Santiago Cortés in un articolo sul New York Magazine. «Gran parte della nostra vita, dagli appuntamenti online, ai motori di ricerca, ai feed dei social media, è mediata da algoritmi. E ne parliamo come se ne sapessimo davvero molto: ci lamentiamo dell’algoritmo di Facebook e lodiamo quello di TikTok che ci fa vedere cose che ci piacciono».
La sensazione, scrive Michelle Santiago Cortés è che l’algoritmo ci capisca solo perché ci abbina a canzoni, persone e TikTok che si allineano con i nostri bisogni e desideri, e per questo scivoliamo in una sorta di strana devozione. Siamo colpiti dalla sua capacità di conoscerci anche in maniera introspettiva, al punto che a volte si ha la sensazione di essere spiati, magari attraverso la fotocamera del pc o dello smartphone.
L’articolo del magazine newyorchese si apre con un’intervista a una persona che «preferirebbe farti leggere le informazioni appuntate nell’app Note del telefono prima di mostrarti i video che le vengono suggeriti su TikTok». E il motivo è semplice: «La pagina “For You” del social cinese è uno specchio troppo accurato della nostra personalità: dopo ore e ore di scroll e “mi piace” si arriva in un circolo ristretto che noi stessi abbiamo contribuito a creare collaborando con l’algoritmo della piattaforma, al punto che sembra che la pagina dei video suggeriti ci conosca davvero».
Il punto è che i feed di algoritmi come quelli di TikTok, ma anche Spotify, Instagram e Tinder, possono connetterci con persone e idee a noi affini, facendoci anche sentire meno soli, più compresi. Ma possono anche farci sentire davvero alienati, incompresi e mercificati quando usano i nostri dati per mostrare una versione distorta di noi stessi. «È come se a un certo punto quello specchio così perfetto nel riflettere la nostra immagine potesse arrivare anche a distorcerla, a rifletterla in maniera meno accurata», scrive il New York Magazine.
Nell’articolo c’è poi un’intervista all’antropologa Natasha Dow Schüll, che insegna alla New York University, e il cui lavoro si concentra sulla vita psichica della tecnologia e sul rapporto tra i dati e il sé. «Puoi dire tutte le ragioni intelligenti per cui sei contrario a queste cose, ma se guardi ai comportamenti delle persone, anche al mio alla fine, alla gente piace essere riconosciuta», dice la dottoressa Schüll.
È per questo che c’è almeno un sentimento ambivalente verso gli algoritmi: da una parte la sensazione di essere addirittura spiati, dall’altra quella di apprezzamento.
«Proprio come una slot machine, ogni colpo, ogni appuntamento, ogni giro della ruota cambia in qualche modo chi sei e ti costringe e ti coinvolge ulteriormente», aggiunge Schüll. Sono gli utenti stessi a consegnare più o meno consapevolmente agli algoritmi il loro tempo, le loro informazioni personali, i loro gusti – e si rendono vulnerabili – in cambio di connessione, di comprensione.
Sarebbe ingenuo credere che le aziende dietro questi algoritmi abbiano a cuore i nostri migliori interessi. La principale fonte di guadagno di TikTok, ad esempio, è la vendita di annunci pubblicitari, e l’unico obiettivo dell’algoritmo è prolungare il più possibile la permanenza degli utenti – come scrive il New York Times.
Guardando agli sviluppi futuri della tecnologia è difficile immaginare che algoritmi migliori, più “sicuri”, anche più intelligenti, possano essere la risposta. La soluzione al rapporto sbilanciato con gli algoritmi non può stare solo in una risposta tecnologica. Anche perché nessun algoritmo riesce davvero a comprendere la complessità umana, le infinite sfumature del pensiero, la variabilità delle emozioni.
Dall’altro lato non è sufficiente dire che basterebbe dare minor peso alle piattaforme online o addirittura posare i telefoni, perché non sembra una soluzione percorribile: il rapporto dell’uomo con questo tipo di tecnologia, con gli algoritmi, ormai è strettissimo.
L’articolo del New York Magazine suggerisce una via d’uscita. E per farlo paragona gli algoritmi all’oroscopo: «L’algoritmo prova a intuire e a prevedere il tipo di persona a cui si rivolge, e il linguaggio dell’astrologia è molto simile: un tempo l’astrologia veniva invocata per ridurre la totalità di una persona a ciò che le stelle dicevano che fosse. Non siamo i nostri segni solari, né ciò che i nostri algoritmi dicono che siamo. Abbiamo imparato a usare l’astrologia come strumento di interpretazione, come linguaggio per elaborare cose che stiamo cercando di capire».
In fondo gli algoritmi sono una creazione dell’uomo e forse, anziché lasciare che siano loro a distorcere la nostra immagine reale, quel che conviene fare è sfruttare questo potenziale per capire qualcosa di più su noi stessi.