Un grande avvenire dietro le spalle è stato molti anni fa il fortunato titolo di un libro autobiografico di Vittorio Gassman (così fortunato da essere riciclato in ogni modo e diventare un tormentone). Un grande futuro dietro le spalle, potremmo proporre oggi, parlando del tempo verbale.
Pressoché scomparso nel linguaggio quotidiano, dove è ormai sistematicamente sostituito dall’indicativo presente («da domani mi metto in dieta», «la prossima estate andiamo in Grecia»), il futuro semplice inopinatamente ricompare al posto del passato remoto nel linguaggio paludato dei testi commemorativi: biografie di un personaggio illustre, ma anche di una azienda, un ente o un oggetto qualsivoglia (per esempio un’opera d’arte, un reperto archeologico).
Interi articoli e interventi orali sono costruiti così. Prendiamo il caso di uno scrittore. Dopo un iniziale tempo al passato («nacque» se defunto, «è nato» se vivente – ma la distinzione tende spesso a cadere) e magari un rapido passaggio al presente storico («si iscrive all’università di…»), è tutto uno sbocciare di futuro: «si laureerà con…», «si trasferirà a…», «pubblicherà il romanzo…», «che sarà tradotto in…», «ma il successo arriverà con…», «che vincerà il premio…», una marcia radiosa gravida di avvenire scandita dal biografo con arte divinatoria, fino all’irrevocabile, tombale vaticinio «morirà nel…», estremo futuro oltre il quale non c’è più futuro (a meno che il biografo chiaroveggente non sia altresì un cultore dell’occulto in grado di dire che cosa ci sarà dopo) e il soggetto del verbo al futuro diventa di colpo trapassato.
È come se il narratore, anziché collocarsi alla fine della storia, se ne ponesse al principio, leggendo nella palla di vetro tutto ciò che seguirà. Un espediente retorico. Ma fino a che punto sostenibile?
La regola grammaticale (cfr. La grammatica italiana, Treccani 2012) dice che per esprimere l’idea di futuro nel passato, ossia di un evento che accade nel passato ma dopo un altro evento, si fa ricorso al condizionale passato (“giurai che dall’indomani mi sarei messo in dieta”, “decidemmo che l’estate successiva saremmo andati in Grecia”) e non al futuro semplice. Sono le norme della consecutio temporum che regola la concordanza dei tempi verbali nelle proposizioni subordinate.
Come si sia precipitati nel vezzo della inversio temporum, immancabile segno distintivo di un registro comunicativo intenzionalmente elevato, e in particolare del critichese, non è chiaro. Un amico a cui l’ho rimproverato mi ha spiegato che il passato remoto gli dà un’idea di tempo statico, lapidariamente concluso, che conferisce alla narrazione biografica una connotazione quasi da iscrizione funeraria, a fronte del quale il futuro sarebbe più aperto e dinamico, includendo un senso di sviluppo articolabile in pause e accelerazioni. E indubbiamente l’espediente può avere una sua efficacia, se utilizzato con parsimonia. Ma produce effetti surreali quando è impiegato dall’inizio alla fine di un testo con implacabile ridondanza.
Nel babelico rimescolamento dei tempi verbali, la sostituzione del passato remoto con il futuro, che si rivale così della rimozione subìta a opera del presente, fa il paio paradossale con l’imperfetto al posto del presente, di cui si è occupata una precedente Linguaccia. Come nella concatenazione della celebre ballata di Angelo Branduardi, l’imperfetto si mangia il presente che si mangia il futuro che si mangia il passato remoto. E proprio come il topolino comprato alla Fiera dell’Est – mangiato dal gatto morso dal cane picchiato dal bastone… – il passato remoto è l’ultimo anello della catena, vittima senza compensazione, che subisce senza agire: un tempo verbale negletto che nell’italiano contemporaneo non se la passa troppo bene, ma nel linguaggio corrente del Nord è già di fatto estinto, e avanti di questo passo sopravvivrà soltanto come tempo narrativo letterario.
Anche il futuro, però, non sembra avere un grande futuro, se per salvarsi dall’estinzione deve snaturarsi in un ruolo non suo, come succedaneo di un tempo passato. Vorrà dire qualcosa? Forse è solo una suggestione, ma ha l’aspetto d’una metafora: di un tempo (non verbale: il nostro) incapace di guardare avanti, che non sa pensare l’avvenire se non come riproposizione mascherata di ciò che è già stato.
O inversio temporum, o mores!