Che l’investimento migliore sia quello nel capitale umano lo si sente dire da decenni nei dibattiti politici, nei convegni, ai congressi di partito. È una frase che mette d’accordo Confindustria e sindacati, destra e sinistra, europeisti e sovranisti.
Come tante affermazioni simili, naturalmente il suo destino è quello di rimanere un’enunciazione vaga con rare applicazioni reali, visti anche i numeri del bilancio statale e la percentuale destinata all’istruzione.
Eppure c’è qualcuno che sembra averla presa sul serio negli ultimi anni: le famiglie. Da tempo l’ammontare complessivo delle loro spese delle famiglie per la formazione dei figli è in crescita costante.
Lo rileva Cerved, che mette a confronto la spesa pubblica e quella privata per il welfare inteso in senso molto largo, quindi comprendendo tutto ciò che riguarda l’assistenza ai più fragili, gli investimenti in competenze, la cura dei bambini, e così via.
A livello aggregato proprio l’istruzione è l’unico ambito in cui le risorse messe a disposizione, non dallo Stato ma dai privati, sono aumentate ogni anno, tra il 2017 e il 2021, passando da 9,6 a 12,4 miliardi. Dato ancora più rilevante se consideriamo che nel frattempo vi è stata la pandemia, che ha provocato, per esempio, una riduzione della spesa per l’assistenza agli anziani (e il licenziamento di tante badanti).
Questi 12,4 miliardi, inoltre, rappresentano a livello percentuale una quota molto importante di tutti quelli che vengono riservati all’istruzione. Se li confrontiamo con i 62,6 erogati dal settore pubblico, emerge che un euro su sei speso nell’istruzione viene dalle famiglie, in termini di scuole private, ripetizioni, corsi e certificazioni varie.
Quei 6,2 milioni di nuclei (il 24,3% del totale) che hanno investito del denaro in questo ambito hanno sborsato nel 2021 1.985 euro a testa, più dei 1,894 del 2020, e più dei 1.699 e dei 1.814 del 2017 e del 2018.
Si tratta dell’incremento più rilevante in 4 anni, del 16,8%, ovviamente molto più grande di quello del reddito netto, che nello stesso lasso di tempo è cresciuto solo del 2,6%, complice il Covid. Ma anche più importante di quello per le altre forme di welfare.
Dati Cerved
Naturalmente a spendere di più sono quelle famiglie che si trovano in una condizione migliore dal punto di vista economico. Cerved distingue tra quelle in una situazione di debolezza (con un reddito netto medio di 13.903 euro o meno), quelle in una di autosufficienza (25.683 euro), quelle medie (34.394), quelle in una condizione di benessere (43.013), e infine le famiglie definibili agiate (72.818).
L’impegno finanziario raggiunge per questi ultimi nuclei i 3.753 euro all’anno.
Spesa per condizione economica, dati Cerved
Tuttavia, e questo è il dato più significativo, non aumenta quanto i redditi. Vuol dire che la percentuale del reddito che una famiglia destina all’istruzione privata è maggiore per i più poveri.
In sostanza, avviene quello che normalmente vediamo con i consumi più basici e necessari, come il cibo: ovvero più il nucleo è indigente più cresce la quota riservata a questi. È qualcosa che non accade, per esempio, per la spesa per l’assistenza familiare (colf e simili) o la cura dei bambini (babysitter), la cui importanza, invece, aumenta con i redditi.
Al contrario, lo stesso andamento si nota per quella per la salute e l’assistenza agli anziani, ritenute anch’esse così fondamentali da assorbire per i più poveri una quota più alta delle entrate. In nessun caso, però, la proporzione del reddito impegnata cresce come avviene per l’istruzione: vi è più che un raddoppio passando dall’1,2% destinato a tale scopo dalle famiglie più agiate al 2,6% di quelle più deboli.
Spesa per condizione economica, dati Cerved
Il raggiungimento di un titolo di studio e l’apprendimento di una lingua sono come il pane e il latte, verrebbe da dire peccando un po’ di retorica.
Eppure è così: vi è un’aspirazione diffusa alla migliore istruzione dei figli che forse non è ben percepita dalla politica e che raggiunge livelli inaspettati. Tanto che addirittura l’86,1% dei genitori dei ragazzi che stanno frequentando le scuole superiori (tutte, non solo i licei) e che hanno appena cominciato l’università prevedono che questi prenderanno la laurea.
Viene superato l’80% anche tra le famiglie con i redditi minori, e non vi sono differenze significative tra queste e le più ricche.
La realtà però è ben diversa: negli ultimi anni solo il 27,8% dei figli ha concluso gli studi laureandosi. E in questo caso, invece, un divario tra i più indigenti e i più facoltosi c’è. I rampolli di questi ultimi hanno una probabilità più che doppia rispetto a quella dei ragazzi più poveri di prendere un titolo universitario, 34,9% contro 16%.
Dati Cerved
Cosa ci dicono questi numeri? Che vi è una domanda diffusa di competenze, magari non mirata, e anche molto ingenua, magari motivata più che altro dal prestigio, dalla volontà di avere il “figlio dottore” che da un calcolo e da una valutazione consapevole dell’importanza dell’istruzione. Ma ben venga comunque. Il punto è che a fronte di questa forte domanda l’offerta, in termini di reali possibilità, è insufficiente. E di molto.
Se escludiamo il caso del figlio che rifiuta di seguire le aspirazioni dei genitori perchè ha diverse attitudini, cosa che succede più spesso nelle famiglie più ricche, per il resto la ragione principale per cui i ragazzi non prendono la laurea è la ricerca di un lavoro per raggiungere l’autosufficienza economica. Questo è vero soprattutto per i più poveri.
Si tratta di dati che interpellano la politica. Che non può più rifugiarsi dietro un supposto rifiuto culturale dell’istruzione, dietro la mentalità. Sono i dati oggettivi, la mancanza di welfare, i redditi troppo bassi, che impediscono all’Italia di raggiungere la quota di laureati che caratterizza altri Paesi.
È la scelta di “investire” in altre forme di spesa pubblica che ha aiutato a produrre questi risultati.
Però a una classe politica così attenta al consenso immediato queste statistiche dicono anche che decidere di agire in direzione di maggiori fondi per la scuola e l’università, attraverso maggiori borse di studio, per esempio, regalerebbe un po’ di popolarità. Almeno tra coloro che hanno figli.
Il problema è un altro: è che questi ultimi sono pochi, e sempre meno. Questa indagine di Cerved ha dato risultati netti, ma si riferisce a una minoranza della popolazione che andrà a restringersi sempre di più. Mentre cresce la porzione che non ha alcun interesse personale a un aumento della spesa a favore di chi ha meno di 25 anni.
Sempre lì siamo costretti a tornare allora, alla crisi demografica. Che ci interpellerà a breve anche molto di più di quanto i numeri sulla voglia di istruzione riescano a fare.