Manca la volontàLa scelta pretestuosa della Consulta di aggrapparsi alla forma per bocciare i quesiti

Storicamente la Corte Costituzionale ha innovato, proposto e cambiato i propri poteri. Avrebbe potuto farlo anche stavolta, magari ridefinendo il testo dei referendum o individuando altre strade. Invece ha preferito bacchettare i promotori e mantenere lo status quo

Mauro Scrobogna /LaPresse

Quando lo ha voluto lo ha fatto. La Corte Costituzionale ha più volte “auto-aggiornato” i propri poteri in funzione delle necessità e della evoluzione della società e del diritto.

Così, di punto in bianco, ha accettato che i cittadini, in materia elettorale, le si rivolgessero direttamente impugnando la legge elettorale saltando l’intermediazione dell’incidente di costituzionalità davanti a un giudice che per decenni era stato ritenuto assolutamente insuperabile e, sempre in materia elettorale, ha “ritagliato” una nuova legge elettorale dettando al Parlamento i criteri della sua necessaria futura riforma.

In altre circostanze ha innovato (o per meglio dire aggiornato) i principi che governano gli effetti delle sue sentenze, sulla base di criteri di mera opportunità politica.

Allo stesso modo, di fronte alla enormità della manifestamente ingiusta, e ormai inaccettabile, imputazione di Marco Cappato, ha per la prima volta nella sua storia, dapprima sospeso il giudizio assegnando al Parlamento un termine per provvedere al “vuoto normativo” che la mera dichiarazione di incostituzionalità avrebbe creato; e successivamente, per la prima volta nella sua storia, ha autonomamente cercato nell’ordinamento le tracce di una serie di condizioni in presenza delle quali riempire quel vuoto normativo al posto del legislatore.

Insomma quando ha voluto superare i formalismi per rendere giustizia, lo ha fatto.

Ora, le decisioni di inammissibilità dei referendum sulla cannabis e sull’omicidio del consenziente hanno un sapore beffardo, soprattutto alla luce delle motivazioni, che sembrano rimproverare imperizia agli estensori dei quesiti.

Non credo che quei quesiti fossero inammissibili (e infatti non credo che le decisioni siano state assunte all’unanimità dalla Corte) ma quand’anche non fossero stati perfetti e fosse sorto un dubbio sui loro effetti, erano certamente perfettibili.

Ora, chiunque abbia a che fare con la tecnica redazionale delle norme sa quanto spesso si riveli complessa l’applicazione – su un testo legislativo – di un’operazione meramente abrogativa.
I testi legislativi non vengono mai scritti pensando che devono poter essere scomponibili e frazionabili, sicché talvolta – anche per raggiungere esiti abrogativi evidenti (e non additivi o manipolativi) come de-penalizzare un comportamento vietato dall’ordinamento (coltivare, consumare e commercializzare cannabis, oppure somministrare un farmaco letale al malato incurabile che soffre di dolori insopportabili che lo abbia consapevolmente richiesto) – il ricorso al solo “taglio” di parole (senza poterne “cucire” o “incollare” altre) non permette di raggiungere testi finali pienamente soddisfacenti, espressivi, con la massima precisione, del risultato abrogativo voluto. Anche quando l’intento abrogativo è inequivoco e la volontà del comitato promotore e dei sottoscrittori è altrettanto inequivoca.

È solo la tecnica redazionale della norma oggetto di abrogazione che (per puro caso) non sempre permette un risultato ottimale.

Ma in questo caso, allora, appare irridente che il Presidente della Corte Costituzionale, invece di esortare la Corte ad aggiornare il proprio strumentario (come ha mostrato di saper fare quando vuole) per rendere giustizia ai cittadini sottoscrittori e ai comitati promotori, si rivolga agli estensori dei quesiti con la matita rossa e blu e li bacchetti, accusandoli di aver lasciato aree di (manifestamente involontaria) impunità (come la coltivazione di sostanze destinate ad essere trasformate in droghe pesanti o la tutela di persone fragili dalla tentazione dell’eutanasia attiva).

Era infatti evidente e lapalissiano che promotori e firmatari non intendevano in alcun modo far produrre quegli effetti dall’accoglimento dei quesiti così come formulati.

Un intervento “correttivo” dei quesiti, con tecniche innovative non dissimili da quelle già tracciate dalla Corte, si imponeva, anche e a maggior ragione, alla luce del sistema italiano che non prevede alcuna forma di verifica preventiva (o in corso di raccolta di firme) di ammissibilità del quesito e della correttezza della sua formulazione.

E l’intervento “correttivo” dei quesiti può essere reso necessario dalla tecnica redazionale del testo legislativo da “amputare” che – per ragioni del tutto casuali e indipendentemente dalla volontà del comitato promotore – non sempre consente un perfetto ritaglio delle norme da lasciare e di quelle da abrogare.

E allora perché sgridare i promotori, accusandoli di voler permettere la coltivazione delle foglie di coca o l’eutanasia attiva su persone fragili – nella consapevolezza che né loro, né i sottoscrittori delle proposte referendarie, hanno neppure lontanamente questi obiettivi – e non soccorrere, rispettare e proteggere, invece, la volontà popolare con il perfezionamento dei quesiti, o con il chiarimento degli effetti che non deriverebbero dal loro accoglimento?

I quesiti, del resto, non sono né sacri né intoccabili, come dimostra l’ampia discrezionalità esercitata dal Parlamento nell’approvare norme preventive di riforma della disciplina sottoposta a referendum, al fine di inibirne la celebrazione: in quel caso per impedire il referendum è sufficiente che i contenuti della riforma vadano «nel senso voluto dai promotori del referendum».

Ecco, qui sarebbe stato necessario molto meno, sarebbe bastato un perfezionamento ad opera della Corte sui quesiti «nel senso voluto dai promotori del referendum», e sarebbe stato quanto mai opportuno da parte del Presidente della Corte rivolgere al Parlamento inerte, e non ai promotori dei referendum, i propri rimproveri.

La democrazia partecipativa non può essere ridotta a un gioco dell’oca in cui a un certo punto arrivi sempre alla casella di riporta al VIA, perché prima o poi viene il giorno che i giocatori si stufano e buttano via il gioco.

La Corte svolge un ruolo cruciale nel nostro sistema ed è un attore istituzionale che, al pari di tutti gli altri (Parlamento innanzitutto), ha il dovere di inverare e manutenere gli istituti democratici.

E allora, come si suol dire, «è solo una questione di volontà», che in questo caso non c’è stata.

Simona Viola è membro della segreteria di +Europa e responsabile giustizia

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