Ora Matteo Salvini dovrà pedalare velocemente sulla bicicletta dei cinque referendum sulla giustizia ammessi dalla Corte Costituzionale. E sperare soprattutto in una buona stella, che ultimamente non si accende nel suo firmamento politico.
Convincere gli italiani a recarsi in massa alle urne per votare quesiti tanto tecnici sarà una scommessa azzardatissima. Non avrà il traino della cannabis libera, che avrebbe fatto raggiungere senza dubbio il quorum. Certo, non tira un’aria buona per la magistratura, la reputazione è ai minimi storici. Il caso Palamara, la desolante lotta tra correnti, le raccomandazioni per un posto in Procura, gli errori giudiziari, l’eccesso in alcuni casi della carcerazione preventiva e l’attenuarsi dell’impeto giustizialista hanno fatto male all’ordine giudiziario, ma da questo a raggiungere il quorum c’è ne passa.
Sono tanti i nemici che stanno aspettando Salvini al varco. Se dovesse cadere, si spezzerebbe l’osso del collo politico dopo i non entusiasmanti risultati degli ultimi anni. A cominciare dalla crisi del governo gialloverde al flop delle amministrative del 2020 fino alla continua decrescita infelice nei consensi, che hanno portato la Lega dalle vertigini del 34% delle europee sotto la soglia psicologica del 20%. Tutto a favore di Giorgia Meloni.
Ma questo è sotto gli occhi di tutti, come la difficoltà di gestire la presenza leghista in un governo Draghi accanto al Pd e ai 5 Stelle, con un peso massimo come Giancarlo Giorgetti che è più schierato con il premier che con il suo segretario. L’ultima più eclatante défaillance, quella sul superbonus edilizio, che per il ministro leghista allo Sviluppo economico è una droga pesante per il settore, mentre per il suo capo è una spinta fondamentale al Pil.
Fin qui, si fa per dire, problemi ordinari. Se Salvini dovesse fare un buco nell’acqua con i referendum sulla giustizia, cioè non raggiungesse quel fatidico quorum del 50% più un voto, allora ci sarebbe l’allineamento dei pianeti sfavorevoli alla sua leadership e al traguardo di Palazzo Chigi. Una tempesta perfetta di primavera a un anno dalle elezioni politiche. Ecco perché ha bisogno che tutto il centrodestra marci insieme, ecco perché ha bisogno che anche Giorgia Meloni si impegni a portare alle urne i suoi elettori e simpatizzanti cresciuti in maniera esponenziale. Che si impegni quanto meno a portarli alle urne per i tre referendum sui quali ha dato il suo ok.
Salvini è terrorizzato che la creatura referendaria messa su con i Radicali fallisca trascinando anche lui. Questo spiega perché abbia chiesto l’election day: voto nello stesso giorno dei referendum e dei sindaci di alcune grandi città italiane. E non è detto però che basti, ma sarebbe un motore in più per sensibilizzare gli italiani, sempre più astensionisti, a recarsi alle urne. Anche Antonio Tajani, il coordinatore di Forza Italia, chiede l’election day. Berlusconi sul terreno della giustizia ha una particolare sensibilità, da sempre. Meloni deve ancora decidere se entrare nei comitati per il Sì che la ministra di Forza Italia Maria Stella Gelmini auspica. Fratelli d’Italia deve ancora decidere come muoversi. «Non faremo sgambetti – spiega il capogruppo Francesco Lollobrigida – non lavoreremo contro solo per fare un dispetto a Salvini: non è questo il nostro modo per selezionare le leadership. Faremo campagna referendaria in maniera seria. Se una cosa è giusta noi la sosteniamo, da chiunque venga».
Meloni riunisce la direzione, chiede coerenza di posizionamento al centrodestra, alla Lega in particolare («Non sono disponibile a far finta di niente, basta inciuci, no a una legge proporzionale»). Salvini si morde la lingua per non polemizzare. «Sarebbe molto bello – dice il capo leghista – se il centrodestra guardasse avanti e ripartisse sulla spinta riformista di questi quesiti che si fondano sul merito e sulla modernità».
Meloni è comunque freddina, farà la sua parte recitando un copione scritto ma senza scaldarsi più di tanto. Se i referendum dovessero fallire, se il quorum non dovesse essere raggiunto, tutto franerebbe su Matteo. «Intanto proviamo a rispondere ai quesiti in Parlamento. Se poi non sarà possibile allora ci sono i referendum», precisa Meloni, che però non sosterrà i quesiti sulla custodia cautelare e la legge Severino.
Dentro FdI per la verità nessuno crede che si raggiungerà il quorum, perché scaldare gli italiani su problemi così tecnici è impossibile. Altra cosa, appunto, era che la Consulta avesse ammesso il referendum sulla cannabis mobilitando i 6 milioni di consumatori abituali. Eppure sembrava che la Corte Costituzionale fosse favorevole ad ammetterlo, non cercasse il “pelo nell’uovo”, come aveva detto il presidente Giuliano Amato. Ma il giorno prima, di fronte alla bocciatura del quesito sull’eutanasia, Marco Cappato si era lasciato sfuggire che i giudici costituzionali non sanno cosa sia la sofferenza. Amato ha trovato ingiusto questo giudizio («mi ha ferito»). Ecco quindi, spiegano alcuni ambienti del centrodestra, che l’indomani è stato impallinato il quesito sulla cannabis. Colpendo pesantemente Salvini.
C’è un altro problema che preoccupa i leghisti: il peggiore nemico del risultato positivo è lo stesso Salvini, il suo protagonismo. Il rischio che tutto il fronte pro referendario vede è la personalizzazione della campagna elettorale, con un finale che Matteo Renzi, commettendo lo stesso errore, pagò nel 2016 quando gli italiani dissero no al referendum costituzionale. In quel caso però non fu un problema di quorum. Anzi, andarono in tanti a votare, ma contro Renzi che perse la leadership del Pd e la presidenza del Consiglio. Per Salvini il rischio è di perdere definitivamente la leadership del centrodestra.