La notizia è che i bolognesi sono dappertutto. Sono anche nella Silicon Valley, dove una colonia di emigrati, probabilmente andata lì per vendere ai californiani tortellini in crema di parmigiano con sopra il tartufo (poveri voialtri che pensate siano leciti solo in brodo), si è insediata negli uffici di Twitter preposti a decidere quali parole sia corretto usare.
E quindi noialtre teppiste convinte che l’utilizzo dei lemmi emiliani ci avrebbe protette dalla parolacce police siamo state fregate, e noialtre siamo io (e le mie multiple personalità, e i miei plurali da mitomane), e insomma noi cioè io non possiamo cioè non posso più usare Twitter, e la ragione è: ho dato a Luca Bizzarri del vecchio busone.
È successo l’altroieri, quando uno sconosciuto mi ha chiocciolato un video. In quel video c’ero io, forse. Dico «forse» perché riconosco una giovane me, sebbene evidentemente truccata da una professionista televisiva (un giorno bisognerà occuparsi dell’orrido gusto delle truccatrici televisive, del loro inspiegabile debole per i lucidalabbra e i fard). Riconosco il vestito, uno dei miei preferiti degli ultimi trent’anni.
Ma non riconosco nient’altro. Giurerei di non aver mai visto quello studio televisivo. Non ho idea di che programma fosse. Quand’è accaduto che abbia condiviso uno studio televisivo con Alessandra Mussolini? Quand’è successo che io e lei abbiamo discusso di Veline e volontà del pubblico di guardare i corpi delle donne e non quelli degli uomini? Che giorno era, quale calendario?
Insomma questo tizio mi invia questo video, in cui la Mussolini dice che lei vuole vedere in tv dei manzi seminudi, e io rispondo qualcosa tipo «preferirei di no» con quell’aria schifata che ho quando mi si parla di carne giovane (è una citazione, a chi la riconosce va il mio affetto, tanto non rischia d’andare a più di tre italiani).
Annalena Benini lo ritwitta perché le piace mettermi in imbarazzo, Luca Bizzarri risponde che ho torto perché è contento solo quando mi dà torto, e tutto questo avviene in pubblico; ma ormai tendiamo a dimenticarci di quali conversazioni siano pubbliche e quali private, io poi mi picco di usare in pubblico le stesse parole che uso in privato, e questa mia prosopopea si articola pubblicamente in: «Tu vuoi gli spogliarellisti perché sei un vecchio busone».
Una frase che solo chi non conosca Bizzarri può ritenere offensiva. Solo chi abbia vissuto chiuso nella capanna di Unabomber a studiare manoscritti di monaci cistercensi può pensare che dare a un anziano playboy – uno costretto a essere, all’età dei datteri, ancora malinconicamente appassionato di figa – del vecchio busone sia un insulto e non un augurio.
Gli appassionanti di gergo bolognese che lavorano a Twitter decidono che sto incitando all’odio (come d’altra parte faceva Lucio Dalla cantando «c’è una puttana, anzi no: è un busone»), e mi revocano la possibilità di utilizzare i loro cinguettii. A meno che io non mostri contrizione cancellando il tweet. Una differenza interessante rispetto alle piattaforme di Zuckerberg: loro ti cancellano d’imperio i contenuti che non approvano, Twitter montessorianamente vuole tu capisca e provveda da sola a rieducarti. Dall’utilizzo, nei confronti d’un mio amico, della parola più affettuosa ch’io gli abbia mai rivolto.
Ma il punto non è, diranno i miei piccoli lettori, cosa dell’espressione «vecchio busone» pensi Bizzarri. Il punto è che i social tutelano i passanti. Come la mettiamo col passante che vede «busone» e – non essendo Paolo Poli ma un ventenne cui la vita ha promesso di tutelarlo dalle brutte parole, non essendo Aldo Busi ma un cretinetti che la società ha illuso circa l’esistenza di enormi stanze dei giochi protette chiamate «safe space», non essendo Arbasino ma un derelitto contemporaneo che vuole credere l’internet sia un posto in cui si usano amabili resti di parole come «queer», che una volta erano l’insulto massimo ma adesso invece sono considerate giuste – ci resta male; come la mettiamo col passante infastidito (in neolingua: triggerato)?
Il punto non sono io che non posso usare Twitter (se me l’avessero tolto un mese fa, magari ci avrei messo meno tempo a chiudere il libro nuovo, con tutto il tempo che mi fa perdere Twitter; se me l’avessero tolto meno sotto uscita del nuovo prosciutto, magari non prenderei in considerazione di far causa ai bolognesi della Silicon Valley per il boicottaggio commerciale: come lo piazzo, il nuovo prosciutto, senza il canale di vendita Twitter?).
Il punto è il senso d’un mondo che fa a un’intera generazione promesse che è impossibile mantenere. Promesse riassumibili in un’unica promessa: mai niente t’infastidirà.
Mai nessuno userà parole non approvate. Non approvate qui e ora, nel preciso momento in cui guardi (in neolingua: scrolli) il display del telefono, visto che esistono gli slittamenti semantici e la variabilità della percezione e che la suscettibilità è il meno collettivo dei sentimenti: io mi sento offesa dalla virgola tra soggetto e predicato, tu ti senti offesa se ti dicono che hai le cosce grosse, lui si sente offeso se gli dicono che è inutile legga Thomas Bernhard tanto non lo capirà, lei si sente offesa se il marito le dice che la lasagna come la fa la sua mamma lei non sarà capace mai, quell’altro si sente offeso dai tortellini non in brodo.
Tempo fa un amico ha pubblicato un libro con un editore suscettibile. L’editore suscettibile gli ha detto che assolutamente non si poteva andare in stampa tenendo quel paragrafo in cui Paolo Poli parlava d’un proprio fidanzato chiamandolo «negro». La notizia è che c’è qualcuno che ritiene più offensiva la parola con la g; e poi ci siamo noi, felici pochi, che riteniamo massimamente offensivo un ritratto di Poli così impreciso e sordo alla verosimiglianza del dialogo da fargli dire «afroamericano».