L’ultima strepitosa interpretazione di Matteo Salvini nei panni del leader pacifista e non violento, lui che da ministro dell’Interno amava farsi fotografare col mitra in mano e promuoveva la diffusione delle armi al grido «la difesa è sempre legittima», non rappresenta solo l’ennesima giravolta di un uomo politico passato in pochi anni dal secessionismo al nazionalismo, dall’uscita dall’euro all’ingresso nel governo Draghi, e oggi in evidente imbarazzo a causa delle mille passate dichiarazioni di ammirazione per Vladimir Putin e per la sua politica.
Il Salvini pacifista di oggi è infatti solo l’ultimo passo di una progressiva convergenza che si è verificata in questi anni tra una parte della destra, scivolata su posizioni sempre più antieuropee, antiamericane, antiscientifiche e antimoderne (in una parola: populiste) e quella parte della sinistra, politica e intellettuale, che da simili posizioni non si è mai troppo allontanata.
Prima ancora della guerra e della convergenza tra le diverse anime dell’antiatlantismo e dell’antieuropeismo italiano, basterebbe ricordare il surreale dibattito sulla presunta dittatura sanitaria, animato nei mesi scorsi dal fior fiore della cosiddetta intellettualità progressista (e mai aggettivo fu usato più impropriamente), in cui autorevolissimi filosofi hanno rilanciato le peggiori teorie della cospirazione. Un dibattito in cui le fake news fabbricate in Russia a uso dell’estrema destra europea facevano un giro completo e rispuntavano all’estrema sinistra, compresi gli assurdi e offensivi paragoni tra green pass e leggi razziali, governi democratici e regime nazista.
Dopo tanti anni passati a celebrare retoricamente l’antifascismo, sembrerebbe che proprio nella sinistra radicale se ne sia del tutto smarrito il senso.
I casi più incresciosi si sono visti recentemente in televisione, con la filosofa Donatella Di Cesare che a “Piazza Pulita” ha avuto il coraggio di spiegare a una ragazza ucraina in lacrime che «non si conquista la libertà attraverso la guerra», perché «la pace viene prima», e alla sua sconsolata obiezione «lo dica al signor Putin» ha replicato senza scomporsi che «la pace vuol dire anche interrogarsi sulle ragioni dell’altro» e che «la demonizzazione di Putin non serve a nessuno».
Qualcosa del genere è capitato pure il giorno dopo, a “Otto e mezzo”, dove Massimo Cacciari e Lucio Caracciolo hanno svolto analoghi ragionamenti – appena un po’ più sfumati – sulla complessità del conflitto, il bene e il male che non stanno da una parte sola e analoghe circonlocuzioni, al tempo stesso ovvie e fuorvianti, per la disperazione del giornalista ucraino collegato da Kiev, sotto le bombe, che si è dovuto sorbire pure la lezione di Realpolitik. A parte lui, per inciso, l’unica a scandalizzarsi e a fare un discorso tecnicamente antifascista è stata Silvia Sciorilli Borrelli, corrispondente del Financial Times. A riprova che ci sono più cose tra cielo e terra di quante ne sognino tanti filosofi.
La guerra ha insomma impresso un’improvvisa accelerazione a un processo in corso da anni. L’accelerazione, come spesso accade, ha comportato però un salto di qualità.
Tra gli effetti collaterali di questo salto di qualità vi è lo spiazzamento di coloro che a sinistra hanno cercato di tenere aperto il dialogo con le componenti più radicali. Ad esempio quegli esponenti della sinistra del Pd, come Gianni Cuperlo e Peppe Provenzano, che sabato erano alla manifestazione per la pace di Cgil e Uil (la Cisl si è sfilata in protesta con la posizione di «neutralità attiva» scelta dai promotori). Dirigenti che, pur rivendicando la scelta di inviare armi all’Ucraina, hanno deciso di sfilare in una manifestazione che contestava esattamente quello, perché la strada per fermare la guerra, come ha detto Landini dal palco, «non è l’invio delle armi, ma il ricorso alla massima diplomazia».
Ed è niente in confronto ai contorsionismi di Pier Luigi Bersani, che mercoledì in un’intervista a Repubblica, pur avendo votato anche lui con la maggioranza sul sostegno all’Ucraina, ha detto che non gli sta bene «questa Unione europea solo con l’elmetto», arrivando perfino a riscoprire Metternich, perché «dopo aver sconfitto Napoleone pretese che anche la Francia sedesse al tavolo del congresso di Vienna, per decidere insieme i nuovi equilibri», mentre «dopo l’89 non è andata così».
Si potrebbe osservare che al congresso di Vienna, per la Francia, non sedevano rappresentanti di Napoleone, ma quelli dei Borbone. E che Putin sarebbe certo lietissimo di seguire la lezione di Metternich, Talleyrand o Bersani che dir si voglia, sedendosi al tavolo delle trattative con Yanukovich.
Che dire? Dalla rivoluzione alla restaurazione, dal campo largo alla santa alleanza, grande è la confusione sotto il cielo della sinistra. E speriamo che in nome della «lezione di Metternich» e del principio di legittimità domani non tocchi riprenderci pure i Savoia.