Ai servi sciocchi e volenterosi del Cremlino, che da anni spiegano che Putin è un bene o comunque non è tutto il male che si vorrebbe far credere, la flessibilità trasformistica della politica italiana darà modo, ovviamente, di redimere l’amore e l’amicizia passata in una dolorosa compunzione, esibita come prova di resipiscenza. Tutti, ora, delusi o sorpresi o sconvolti dal Grande Dittatore e desiderosi di pace.
Ai più fortunati, cioè ai più presentabili, sarà possibile anche contestualizzare le aperture di credito all’avvelenatore di Mosca, alla luce di quanto è successo, come tentativo di arginarne la ferocia vellicandone l’orgoglio e il narcisismo o ingolosendone l’interesse. Insomma, come un malriuscito esercizio di necessitato realismo.
Sbaglia però chi pensa che il putinismo italiano sia stato concentrato nelle suburre populiste e sovraniste dei Manlio Di Stefano e Gianluca Savoini, Alessandro Di Battista e Matteo Salvini, Vito Rosario Petrocelli e Maurizio Marrone, e sia destinato a estinguersi con l’emarginazione di queste frange e l’istituzionalizzazione atlantica ed europeista di grillini, leghisti e post-fascisti.
Il putinismo italiano non è stato affatto un fenomeno da sbandati, svitati e avventurieri, o di estremisti ora ai margini della politica che conta.
Il putinismo è stato il cuore della politica internazionale dell’Italia per due decenni ed è stato impersonato dai massimi rappresentanti del bipolarismo italiano, Silvio Berlusconi e Romano Prodi, in due versioni diverse, ma non opposte e neppure alternative.
Al di là degli aspetti di folclore e di colore che hanno compromesso assai più fortemente il Cavaliere – dalle feste di compleanno, al lettone regalato dal leader russo per le sue notti magiche – Prodi e Berlusconi hanno condiviso nelle relazioni con Putin il principio della imprescindibilità e per certi versi della “provvidenzialità” della leadership putiniana, come forma d’ordine politica preferibile, perché più caratteristicamente russa, al disordine seguito al disfacimento sovietico.
Ancora più radicalmente, Prodi e Berlusconi hanno ritenuto che per gli interessi dell’Europa e dell’Italia il putinismo fosse un fattore di stabilità (di stabilità!) e che la causa della democratizzazione della Russia e della sua emancipazione dai fantasmi e dalle frustrazioni del fallimento dell’Urss e dei sogni imperiali fosse in sé pericolosa per la libertà e sicurezza e dell’Europa. Putin è la Russia, e la Russia è Putin, al bando le fantasie democratiche. Di qui i colloqui ripetuti, le interviste comprensive, lo sforzo di dialogo ininterrotto e regolare e anche mediaticamente rivendicato, da parte di entrambi i campioni del bipolarismo all’italiano. Entrambi amici, confidenti e consiglieri del capopalazzo del Cremlino e orgogliosi di esserlo.
Sia Prodi che Berlusconi sono stati convinti che legittimare Putin, malgrado ammazzasse i suoi oppositori come un capomafia, pure vantandosene, era il modo migliore per non fare esplodere né la Russia, né l’Europa. «L’Ue sta sbagliando» e «abbiamo bisogno della Russia»: anche dopo l’invasione del Donbass e l’annessione della Crimea.
A far divergere Berlusconi e Prodi non è stato quindi il giudizio su Putin ma la strategia di legittimazione da seguire, che per Berlusconi era quella dell’inglobamento surrealistico della Russia nella Nato per un unico governo militare del mondo e per Prodi quello della contestuale amicizia con Mosca e Washington, a suggello della centralità di un’Europa equidistante ed equivicina, amica di tutti e nemica di nessuno.
Lasciamo pure da parte il razzismo implicito nella persuasione che i russi siano immeritevoli di libertà politica e stato di diritto e per destino storico debbano essere sudditi di un potere assoluto. Ma il putinismo adulto di Prodi e Berlusconi, a differenza di quello infantile e sperticato della teppa populista e sovranista, è stato il sostrato su cui si è appoggiata la strategia di ricatto e di condizionamento del Cremlino, con la sua infiltrazione nei gangli del sistema accademico, dell’informazione e della comunicazione, perfettamente raccontata da Massimiliano Di Pasquale e Luigi Sergio Germani ne L’ influenza russa sulla cultura, sul mondo accademico e sui think tank italiani.
A valle e non in contraddizione con tutto questo si è sviluppato il putinismo para-squadristico dei «Forza Putin», che, mischiando i vecchi riflessi anti-atlantisti della sinistra comunista e post-comunista e le fobie antimondialiste della destra fascista e post fascista, ha eletto il gerarca maggiore di tutte le Russie ora a difensore del mondo libero contro il dominio americano, ora ad alfiere dei valori dell’Occidente e della Cristianità contro il relativismo e l’immoralismo Lgbt.
In Italia, a essere state attivamente antiputiniane in questo ventennio sono state piccole minoranze intellettuali liberal-progressiste e liberal-conservatrici senza nessuna vera influenza politica. Non hanno toccato palla e hanno fatto per vent’anni la figura delle Cassandre sfigate, continuamente schernite dai realisti amici del Cremlino, che ancora pochi giorni prima dell’invasione di massa dell’Ucraina irridevano l’isteria degli allarmi americani e cianciavano di un fantomatico negoziato europeo.
Insomma, con il putinismo, presto o tardi (speriamo prestissimo), dovrà fare i conti la Russia. Ma, da subito, i conti bisogna iniziare a farli anche in Italia.
Si potrebbe partire dal lodo, per così dire, del silenzio: tutti quelli che hanno dichiarato eccessive, sbagliate e inique le sanzioni alla Russia dopo la prima fase dell’invasione dell’Ucraina del 2014, auspicandone o reclamandone il superamento, da adesso in poi stanno zitti, fino alla fine di Putin. Una fine auspicabilmente civile, da imputato al Tribunale penale internazionale dell’Aja, non la fine incivile e barbara che lui ha fatto fare da sempre ai suoi oppositori. La fine di Slobodan Milosevic, non quella di Anna Politkovskaja.
D’accordo Berlusconi, Prodi, Salvini, Conte, D’Alema, Di Maio, Meloni, Emiliano, Zaia… (l’elenco potrebbe lungamente continuare)? Fate tutti un bel silenzio bipartisan?