Giorgia Meloni è diventata una erinni quando ha visto che in Commissione Affari Costituzionali di Montecitorio il suo ddl sul presidenzialismo è stato abbattuto dal fuoco amico. Non è passato perché due deputati, uno della Lega, l’altro di Forza Italia, non hanno partecipato alle votazione. Quando si dice il caso.
E allora la leader di Fratelli d’Italia ha acceso il cellulare e con il volto livido ha registrato un video: «Perdiamo per due voti, 19 a 21. In commissione sono mancati due parlamentari del centrodestra. Io non so se non è passata per superficialità o per scelta politica ma so che, se i partiti hanno parlamentari che quel giorno non possono andare in commissione, li possono tranquillamente sostituire. Non so quale sia il problema per cui questa proposta storica del centrodestra, che ha il consenso della maggioranza degli italiani non sia passata. Non so quale sia il problema ma so che c’è un problema».
Insomma, siamo all’“abbiamo un problema, Houston”, la frase pronunciata dall’astronauta dell’Apollo 13. Ora si vedrà cosa accadrà in aula, cioè se i partiti della maggioranza continueranno a respingere la proposta del presidenzialismo e se leghisti e forzisti continueranno a remare insieme ai colleghi governisti.
Ma al di là della vicenda in sé, che comunque non è di poco conto, Meloni solleva ancora una volta un problema, appunto, di coerenza del centrodestra. Coerenza che è mancata a Matteo Salvini, secondo il suo punto di vista, quando nel 2018 strinse l’accordo con Luigi Di Maio alla base del primo governo Conte e di nuovo è venuta meno lo scorso anno, quando sia il capo del Carroccio e sia Silvio Berlusconi si imbarcarono nell’unità nazionale attorno a Mario Draghi.
Tutte le riunioni di coalizioni, i comunicati, gli impegni programmatici (il presidenzialismo è un vecchissimo cavallo di battaglia della destra) sono sempre diventati carta straccia. «Poi Salvini si stupisce se perde vagonate di voti!», è il mantra di Meloni. E qui arrivano ad una curvatura veramente esiziale per il centrodestra.
Dall’europee del 2019 a oggi la Lega ha perso oltre il 15% La discesa è costante e testarda. Sembra che sia costata 260mila voti la figuraccia di Salvini in Polonia, quando il sindaco di Przemyl gli ha sventolato in faccia, a favor di telecamera, la maglietta con il volto di Putin che il leghista aveva indossato solo pochi anni prima sulla Piazza Rossa. Era il periodo del sovranismo rampante e internazionale, che si reggeva tra le guglie del Cremlino e le vetrate dello Studio Ovale occupato da Donald Trump.
Altri tempi, sembra passata un’era geologica: ora, con la guerra portata in Ucraina (e in Europa) dall’autocrate moscovita, Salvini aggiusta il tiro e va a soccorrere i poveri cristi che scappano dalle bombe dell’armata di Putin.
Ma rimaniamo sul punto: la caduta libera e rovinosa dei consensi della Lega, come ha raccontato su Linkiesta Mario Lavia. Secondo Swg la scivolata ulteriore porta il Carroccio al 16,2 dal 17%. FdI sopravanza la Lega di 6 punti. Anche considerato che i sondaggi non sono dei vaticini, la tendenza è questa. Bene, in casa Meloni dovrebbero festeggiare. E lo fanno, in effetti, ma fino a un certo punto, perché nel centrodestra lo scivolamento di Salvini potrebbe essere inarrestabile. Ed è uno scivolamento causato proprio da Salvini – così come la grande crescita del Carroccio, dopo gli scandali e l’uscita di scena di Umberto Bossi che portò il partito a percentuali attorno al 4%, fu tutto merito dello stesso Salvini. Cavalcando la questione migratoria, chiudendo i porti alle navi che arrivavano dal nord Africa e scatenando la macchina comunicativa della Bestia guidata da Luca Morisi, il ministro dell’Interno, tra il giugno 2018 e il maggio 2019 cresce fino a sfondare il muro del 35%.
Caduto il primo governo Conte, in seguito all’euforia di onnipotenza al Papeete, il partito di Salvini si assesta sui livelli precedenti alle elezioni europee, dove aveva raggiunto il picco dei consensi. Prima si ferma attorno al 24%, poi via via scivola sotto la soglia psicologica del 20%.
Meloni intanto mette sotto la Lega con la sua rete di patriottismo, di coerenza bipolare fatta di “mai con il Pd e i 5 Stelle”. Iscrive i suoi eletti al gruppo europeo dei conservatori e diventa pure presidente del partito dei conservatori. Impedisce la creazione di un gruppo unico a Strasburgo con gli estremisti di Identità e Democrazia, tenendosi legata ai polacchi che vedono in Putin il diavolo. Vola negli Stati Uniti invitata alla conferenza annuale dei Repubblicani, si arruola in un atlantismo senza tentennamenti, mai schiacciata su Mosca. Tutto molto utile a futura memoria, nel caso dovesse correre per Palazzo Chigi. Ma come vedremo il traguardo si allontana. Soprattutto, Meloni rimane comodamente all’opposizione senza farsi carico direttamente dei problemi economici e sociali scoppiati con la pandemia.
Morale della favola (si fa per dire), ora guarda la caduta del “dio leghista”, che però potrebbe rivelarsi un disastro anche per lei. È questo il punto. Meloni lo ha confidato al suo partito. Va bene raccogliere i voti in libera uscita dal Carroccio: siamo diventati il primo partito della colazione, un travaso che potrebbe portare FdI a esprimere la candidatura alla premiership. Ma se questo travaso si dovesse fermare e FdI, per saturazione, non riuscisse più a raccoglierlo, la situazione si farebbe seria, pericolosa e pesante.
Il risultato sarebbe che tutto il centrodestra perderebbe quota e capacità competitiva rispetto a ciò che si presenterà dall’altra parte della barricata politica. Rischia di essere sconfitto alle politiche del 2023 in molti collegi uninominali (l’attuale legge elettorale, se rimane questa, ne prevede un terzo) – una sconfitta soprattutto al Sud, dove la Lega sembra in picchiata.
A perdere, dunque, sarebbe tutto il centrodestra. Tenuto conto che FI non è certo in salute. Anzi potrebbe spaccarsi, con una parte già visibilmente attratta dalle sirene centriste. Quello che sta succedendo in Sicilia, dove volano gli stracci in vista delle comunali di primavera e delle regionali d’autunno, è uno spaccato esaustivo di uno scenario prossimo futuro a livello nazionale.
Se Salvini continua a precipitare, Meloni potrebbe trovarsi nella classica situazione della vittoria di Pirro, con in mano un partito primo in classifica sia nel centrodestra sia in assoluto, ma senza una maggioranza in Parlamento che le consenta di formare un governo e di guidarlo. Ma non può certo essere suo il compito di salvare il soldato Matteo che da tempo non ne azzecca una, che si agita troppo, che agisce con quella che uno degli inventori del populismo moderno (Benito Mussolini) definiva «supremazia tattica del vuoto» e di cui era maestro. Ci dovrebbero pensare gli stessi leghisti, ma nessuno ha la forza di cambiare il corso delle cose. È lui che farà le liste elettorali e chi si muove è morto.